Ogni quattordici giorni tornava al Weill Cornell Hospital. Lo schema di cura prevedeva un totale di dodici infusioni, quindi ci sarebbero voluti cinque mesi abbondanti. I primi tempi furono durissimi perché Cristina continuava a perdere peso e forze, il cibo non ne voleva sapere di restargli nello stomaco e i malesseri si susseguivano uno dietro l’altro: mal di testa, mal di gola, mal di ossa, dolori ovunque. Ogni tanto diceva a Matilde “ anche oggi mi sento come un pugile suonato, sento la mia carne maciullata, ho preso tanti di quei pugni che non ce la faccio nemmeno a stare in piedi”. Matilde si prese due settimane di ferie per starle vicino, per assisterla quasi come un’infermiera. Poi incredibilmente il corpo di Cristina cominciò a reagire. La nausea, quella non spariva mai del tutto. Però tutti quei sintomi simili ad una forte influenza gradualmente se ne andarono. In compenso dopo due settimane i suoi capelli castani e mossi, cominciarono a diradarsi. Al mattino li spazzolava con un gesto delicato e leggero eppure se li ritrovava a mucchi nei pettini della spazzola. Anche solo passandoci le mani in mezzo, gliene restavano sempre troppi tra le dita. Poi una mattina, con il pettine del tagliacapelli regolato al minimo, si rasò la testa. Le prime ciocche che caddero sotto le lame del rasoio, aprirono dei solchi in mezzo alla capigliatura. Quella che Cristina vide apparire allo specchio nel giro di pochi minuti, fu una ragazza sconosciuta. A lavoro terminato si soffermò ad osservarla con curiosità: non le pareva brutta, piuttosto strana. Con la testa rasata i suoi occhi verdi le sembrarono più grandi del solito, grandi e tristi. Ma ciò che la impressionò più di tutto, erano quelle occhiaie scure e pronunciate. Era come se i suoi occhi fossero imprigionati là dentro, e con essi anche la sua anima.
Vennero a trovarla Thomas, Paula ed Enrique. Appena Cristina aprì la porta, Paula si tuffò su di lei abbracciandola calorosamente “Crissy ci manchi tanto!” poi tenendola ancora a sé, si discostò giusto quel tanto per osservare il suo volto da vicino “ ma lo sai che sei proprio carina anche coi capelli rasati…”. Anche quando toccò ad Enrique, furono calorosi baci e abbracci “ hey credevi di liberarti di noi ma ti è andata male…e poi mi dici come facciamo senza la relatrice del nostro gruppo di lavoro? Senza di te è un casino” “Enrique non hai idea di quanto mi manchi il laboratorio e tutto il resto” le rispose Cristina “ lunedì prossimo comincerò il terzo ciclo di chemio. Poi spero che il mio corpo non mi dia troppi problemi, così forse potrò ritornare”. Infine arrivarono gli abbracci e i baci di Thomas “ciao piccola” non aggiunse altro. Si guardarono negli occhi ma Cristina percepì in lui un certo imbarazzo. In quel momento il contatto tra di loro le era parso neutro, privo di quel coinvolgimento fisico ed emotivo che ricordava. Ad ogni modo, furono molto carini con lei, fecero di tutto per metterla di buon umore. Thomas sfoderò il suo pezzo forte, l’imitazione del Dottor Wilson, il loro responsabile di laboratorio. Enrique per non essere da meno, si lanciò nell’imitazione di una loro collega, la più arrivista tra tutti ma anche la più scontrosa e nevrotica . Il resoconto divertente del loro ambiente di lavoro non fece altro che accrescere in Cristina la voglia di tornare ad indossare il suo camice bianco. Dopo due mesi avanti e indietro dall’ospedale, non le pareva vero di essere lì coi suoi colleghi più cari a ridere e scherzare. Quella sera fu sufficiente la loro compagnia per dimenticarsi almeno temporaneamente dei disturbi che la perseguitavano. Infine Paula disse:“Crissy poi a Settembre quando sarai guarita ci aspetta una breve vacanza nella Frisco Bay. A Cristina per un attimo parve un obiettivo a portata di mano, lì dietro l’angolo, bello e possibile. Ma fu solo un istante perché subito irruppe in lei l’inquietudine verso le sedute di chemioterapia che l’attendevano.
Quinto round, Cristina ancora sul ring. Se c’era una cosa bella nel tornare all’ospedale, era il piacere di rivedere le altre ragazze. In fondo le conosceva solo da due mesi ma da subito si era stabilito fra loro un comune senso di vicinanza. Per Cristina era paradossale doverlo ammettere ma alla base della loro amicizia c’era la malattia. Di fronte alla sofferenza fisica e morale, stavano sperimentando cosa contasse davvero nelle loro vite. E ogni volta scoprivano quanto un’amicizia sincera le aiutasse ad affrontare le fatiche.
Negli ultimi giorni Cristina aveva ripreso un po’ di forze, la visita dei colleghi in qualche modo aveva alimentato la sua voglia di reagire. Così decise di preparare un dolce per il Club degli Angeli “ragazze finalmente questa volta ce l’ho fatta…Tiramisù, preparato come vuole la tradizione italiana” “Evviva che bello!” Melany, la più giovane del gruppo, esternò tutta la sua sincera felicità. Aveva 23 anni, due in meno di Cristina, ma a vederla sembrava ancora una bambina. I genitori avevano investito molto su quella loro unica figlia, iscrivendola alla facoltà di architettura di una prestigiosa università del Nord America. Ma con l’aggravarsi della malattia, Melany dovette abbandonare il college e allontanarsi dai compagni. Fu uno shock per la ragazza che tornata da papà e mamma, si rinchiuse in una sua dimensione fanciullesca, tanto innocente quanto fragile. Solo chi è malato può capire cosa passi nella testa di un altro malato, quali siano i meccanismi psicologici che agiscono sulla propria personalità, fino a modificarla o addirittura annientandola. Negli occhi e nei modi di fare della sua fragile amica, Cristina percepì tutto quello che le stava accadendo, avrebbe voluto abbracciarla forte e darle quella carica emotiva che nemmeno lei credeva di avere. Purtroppo in quel momento, il massimo che potesse fare era condividere quel dolce con lei e le altre. Poi Melany fu assalita da un attacco di tosse quasi da lasciarla senza fiato, passarono lunghi istanti tanto che Cristina abbandonò il Tiramisù in un angolo della stanza. Fortunatamente dopo un po’ riuscì a riprendersi e Cristina si sentì più sollevata. Melany si voltò verso di lei e sforzandosi di sorridere le disse: “sono sicura che il tuo Tiramisù ci farà bene perché l’hai fatto con amore “. Nella stanza oltre alle ragazze c’erano anche due infermiere che le assistevano, una di loro intervenne dicendo “ Cristina guarda che il Tiramisù fa bene anche alle infermiere, non solo alle pazienti!” A quel punto, dalla sua poltrona anche Sofia volle dire la sua “Eh no mia cara, tu ce l’hai la tessera del Club degli Angeli??…E’ una tessera esclusiva sai…mica tutte la possono avere. Per prima cosa bisogna essere angeliche quasi divine, oserei dire…e poi bisogna superare delle prove di resistenza pazzesche. Infatti è roba da angeli mica da comuni terreni!” “hai capito…” rispose l’infermiera “insomma mi stai dicendo che noi non siamo all’altezza eh”. Scoppiarono tutte a ridere, era bastata quella scintilla di buonumore per stabilire la giusta atmosfera ma soprattutto quella si rivelò un’ottima strategia per ridicolizzare la malattia, per smontarla col sarcasmo e gettare il cuore oltre l’ostacolo. Non per niente Sofia era la più intraprendente del gruppo, era sua l’invenzione del Club degli Angeli; sapeva usare le parole con efficacia e in futuro avrebbe sicuramente messo il suo talento al servizio della legge. Di lei colpivano i suoi grandi occhi marroni, forse neri, colmi di quella fierezza di chi affronta la vita con spavalderia. Eppure anche Sofia soffriva ed arrancava come le sue amiche del day hospital. Però a differenza loro che erano visibilmente dimagrite, lei aveva il viso gonfio per effetto del cortisone. Una volta disse: “sì ragazze lo so, sono un pallone gonfiato, in fondo è tipico del mio carattere…e comunque ho già detto al dottor H. che se lo può scordare, non gliela darò mai vinta.
Presero la loro dose di “veleno” goccia dopo goccia cercando di ingannare il tempo come poterono. Kate come al solito si mise a disegnare qualcosa su di un cartoncino. Ogni tanto sollevava la matita e allora il suo sguardo diventava perso, estraniato dal momento presente. Mentre Sofia stava spiegando a Melany quanta fatica facesse a rimanere concentrata nello studio, ad un certo punto Kate disse: “ certo che però passiamo una vita a farci andar bene un sacco di cose che non vanno bene per niente…un lavoro, una cerchia di falsi amici, una città, un modo di comportarci che non ci appartiene…perfino l’aria che respiriamo, ci facciamo andare bene anche quella. Invece è piena di sostanze dannose al nostro organismo…per non parlare del tempo poi. Non abbiamo mai tempo di fare quello che vorremmo veramente. Eppure facciamo i salti mortali per aggiustare anche il nostro tempo quando invece alla fine, a conti fatti, non ci riusciamo mai” “già è vero, hai ragione” rispose Melany “ ma purtroppo delle volte non abbiamo nemmeno la possibilità di scegliere, le cose accadono e basta” Sofia però aveva una visione leggermente diversa“ hey, hey, cos’è tutto questo pessimismo? Io vi capisco, ci mancherebbe, siamo dalla stessa parte della barricata; ma è proprio per queste ragioni che io non ci sto, non mi faccio andar bene proprio un bel niente. Ho sempre lottato per ciò che mi pareva giusto, alla highschool facevo parte del comitato studentesco e ora all’università faccio parte di un gruppo di sostegno per gli studenti con difficoltà economiche o di inserimento sociale. Si tratta di trovare dentro di noi la giusta convinzione”. Kate che aveva ascoltato le loro parole senza nessun coinvolgimento apparente, fece un’altra riflessione “ sì scusami Sofi, avrei dovuto completare il mio ragionamento…in realtà intendevo dire che ora il fatto stesso che questa malattia ci costringa a fermare il nostro tempo, ci da la possibilità di cambiare prima di tutto noi stesse e poi anche le cose che ci stanno intorno. Sì…in fondo per noi avere un Linfoma è una specie di fortuna perché adesso non abbiamo più nessun alibi, non avremo un’altra vita e forse non ci basterà nemmeno questa. E quindi come dici tu Sofi, adesso dobbiamo lottare per prenderci quello che più desideriamo nel profondo del cuore” “ecco appunto…come vedi ogni volta il Dottor Hodgkin ci costringe ad essere sincere. Se vogliamo una vita migliore lui di sicuro non ce la regalerà, saremo noi che dovremo conquistarcela ”.
Di solito le ragazze tra loro parlavano di argomenti infinitamente più leggeri ma quel giorno andò così, grazie all’intuizione di Kate scavarono dentro le loro incertezze in cerca di possibili risposte.
Cristina era felice di trovarsi in quel luogo, pensò che condividere una parte del suo tempo con loro, fosse una grande fortuna. Infine arrivò il momento del Tiramisù. Si radunarono attorno all’unico minuscolo tavolino della stanza come quattro sorelle che si ritrovano ogni tanto per stare insieme, confidarsi e incoraggiarsi reciprocamente. Avrebbero voluto restare per ore a farsi compagnia ma purtroppo finita la seduta, la stanchezza si fece subito sentire e allora come al solito dovettero salutarsi frettolosamente. Quando uscirono dalla sala, c’era un ragazzo in pigiama e testa rasata, avrebbero detto “uno di loro”. Appena Kate lo vide, le si illuminò il viso, si diresse verso di lui liquidando le amiche con un semplice “ciao ragazze”. Cristina non poté fare a meno di osservare quanta tenerezza ci fosse tra i due: lui le prese le mani e le sussurrò qualcosa nell’orecchio, Kate sorridendo si abbandonò docilmente fra le sue braccia. Erano lì in piedi in un angolo dell’ampia sala d’aspetto, la luce che filtrava dalla finestra illuminò i loro corpi avvolti in un abbraccio. Sembrarono due amanti usciti da un quadro di qualche pittore romantico di fine ottocento, catapultati in un luogo e in un tempo che non erano i loro. Fu allora che per la prima volta Cristina rivide l’immagine di Alessio disteso fra l’erba alta di un prato nella luce del tramonto. Lo vide sorridente fissarla dritta negli occhi, riconobbe quel suo sguardo rapito e ammirato che gli aveva visto fare mille volte nei loro momenti di intimità.
Il suo tempo scorreva lento e solitario, le ore duravano giorni. La coperta sul divano era divenuta la sua tana, da lì guardava il mondo riflesso nelle immagini del televisore, non più protagonista della sua vita ma solamente spettatrice. Si alternarono giorni buoni di speranza, a giorni brutti dove il suo fisico trascinava anche la sua mente in un abisso. Un giorno si risvegliò con un forte formicolio lungo tutto il braccio destro, pensando che fosse dovuto alla posizione in cui era sdraiata. Dopo qualche ora perse completamente la sensibilità della mano e piombò nel panico più completo. Dovette chiamare ancora Matilde che la accompagnò in ospedale. La trattennero tre giorni durante i quali le fecero alcune iniezioni. Altre mattine si svegliava con un respiro affannoso e non capiva se fosse dovuto al suo stato di angoscia permanente o altro. Altre volte passava la nottata praticamente insonne paralizzata nel letto dai dolori al bacino, alle anche, alla schiena. Contemporaneamente le sue visite all’ospedale si fecero più frequenti. Qualche giorno dopo la sesta chemioterapia venne richiamata per effettuare una Pet di controllo. L’ansia era tanta, quando la tavola scorrevole la portò all’interno del macchinario, venne colta da un attacco di panico, assalita dalla paura del responso, dal timore di rimanere intrappolata là sotto. Invece i suoi giorni continuarono in quel limbo di solitudine, aspettando una telefonata dalla mamma oppure dal fratello. I suoi giorni divennero una continua prova di resistenza fisica e psicologica. Un messaggio ricevuto da un amico era una piccola iniezione di fiducia per guardare avanti. Una visita inaspettata la faceva allontanare almeno temporaneamente dall’ossessione dei dolori. Quando veniva sera era felice al solo fatto di pensare che di lì a pochi minuti sarebbe arrivata Matilde e così si sarebbe fatta raccontare la sua giornata in città e al lavoro. Invece Thomas non si fece più vedere. Le scriveva messaggi di circostanza, del tipo “come va? Come stai?” ma poi non chiedeva mai niente di più. Cristina però non aveva tempo per soffrire dell’indifferenza di Thomas, provava solamente una grande delusione nei suoi confronti. Quella ragazza sottopeso di oltre dieci chili, pallida e con gli occhi scavati non lo attraeva più e lui non fece nulla per nascondere il suo disinteresse. Semplicemente non se ne curò, aveva altro da fare.
Il giorno della settima terapia il Dottor Leonard lesse il referto dell’ultima Pet: le spiegò che il volume dei linfonodi era diminuito e che la marcatura del radiofarmaco evidenziava un diminuito accumulo di cellule tumorali “ in termini percentuali posso dirti che c’è stata una regressione delle masse tumorali circa del 50%. Possiamo essere moderatamente soddisfatti” poi leggendo un certo smarrimento sul volto della ragazza, aggiunse: “ Cristina purtroppo non esistono scorciatoie per sconfiggere il Linfoma di Hodgkin…devi continuare a lottare così come hai fatto finora e se lo farai fino in fondo, scoprirai di essere una fantastica guerriera”. Cristina lo stava ad ascoltare seduta dall’altra parte della scrivania, il Dottor Leonard con fare paterno le prese le mani e le strinse fra le sue “ sai Cristina, io sono un vecchio dottore e ho avuto molte giovani pazienti, ognuna con la sua storia personale, le sue aspirazioni, le sue paure. Un bravo medico dovrebbe trovare le giuste parole per ognuno di loro ma la verità è che tutto quello di cui hai bisogno è dentro di te. E credimi, la malattia ti costringe a tirarlo fuori anche nella maniera più brutale possibile.”
Nonostante si sentisse sempre molto debole, Cristina volle tornare al lavoro. Il solo fatto di riprendere la routine quotidiana la fece sentire in qualche modo di nuovo parte della società. Per tre mesi si era dovuta tenere in disparte, troppo presa da tutto quello che le stava accadendo. Ora invece voleva provare a convivere col peso della malattia. Quella ragazza sulla banchina della metropolitana in attesa del treno del mattino era di nuovo un pesce che tornava a nuotare in mare aperto. Fu anche una discreta prova emotiva con tutti i colleghi che vennero a sincerarsi della sua salute e a farle coraggio. Ma poi le dinamiche dell’ ambiente di lavoro presero il sopravvento sui sentimenti. E così il Dottor Wilson comunicò a Cristina che il suo posto nel gruppo di sintesi molecolare era stato preso da un’altra collega. Wilson le spiegò che il suo demansionamento sarebbe durato solo fino a quando le sue condizioni di salute le avrebbero permesso di restare stabilmente in laboratorio. A Cristina non restò che fare buon viso a cattivo gioco. Si era illusa di riprendere il suo lavoro dal punto dove lo aveva interrotto ma alla fine si rese conto che ciò non era possibile. Allora cercò di farsene una ragione, capì che per progredire nelle attività in corso, sarebbe servita una costanza che lei in quel momento non poteva garantire. Fu dirottata su un macchinario che tramite una sequenza genica individuava batteri e microorganismi, un processo che aveva certamente una sua valenza nello studio della biologia molecolare ma non altrettanto gratificante quanto la creazione di nuove molecole. Inoltre con il nuovo incarico avrebbe perso la collaborazione con i suoi vecchi compagni e il prezioso scambio di idee con loro. Si sarebbe trovata sola a svolgere una serie di procedure già codificate. Ma incassò anche quel colpo perché in fondo la cosa che contava più di tutte, era quella di poter dare nuovamente il proprio contributo e sentirsi protagonista dei propri giorni.
In realtà i disturbi fisici erano i suoi unici veri compagni: il respiro affannoso, il mal di ossa che la costringeva a sedersi anche quando avrebbe dovuto stare in piedi. E poi la nausea, gli attacchi di prurito, gli sbalzi di pressione e quelli di umore. Messi tutti insieme riempivano quel fardello che Cristina si portava quotidianamente sulle spalle, ostinandosi a voler andare avanti nonostante tutto. Con l’andare del tempo si accorse che alcune sue colleghe quando le passavano vicino, di tanto in tanto le gettavano uno sguardo di commiserazione, una falsa pietà più simile al disprezzo che alla compassione. La scrutavano da capo a piedi, magra e pallida con un copricapo dai motivi fantasia a nascondere la testa nuda. Ma Cristina non avrebbe voluto suscitare nessuno di quei sentimenti, desiderava solo essere trattata come una di loro. Vedere negli occhi della gente quel cinismo, le faceva male.
Tenne duro fino all’ultima chemioterapia, la dodicesima. Le sue condizioni erano sempre instabili, fluttuanti: ripresa, attesa, speranza ma anche ricadute, sofferenza e paure.
Doversi allontanare dalle sue amiche del day hospital, fu un grande dispiacere. Ma d’altronde sapeva che ognuna di loro avrebbe proseguito la sua personale battaglia. Però era quasi certa che sarebbero rimaste in contatto, probabilmente si sarebbero incrociate tra una visita e l’altra. E poi avevano fatto un patto. Si giurarono che il Club degli Angeli ufficialmente non si sarebbe mai sciolto, anzi avrebbe continuato la sua attività in altre forme. Per cominciare si diedero un appuntamento a cena per il mese seguente, convinte che quella amicizia speciale sarebbe durata. Per Cristina quelle compagne d’ospedale erano ormai diventate delle sorelle, impossibile dimenticarsi di loro.
Poi però la situazione precipitò di nuovo. La Pet segnalò tracce di cellule tumorali negli stessi punti dove il Linfoma si era impossessato del suo corpo “Cristina, purtroppo il recesso della malattia non è andato come ci aspettavamo” le disse il Dottor Leonard prendendole di nuovo le mani tra le sue. La fissò dispiaciuto, conscio dell’arduo cammino che ancora una volta l’attendeva “purtroppo devo comunicarti che la concentrazione di cellule tumorali non è sostanzialmente diminuita rispetto all’ultima Pet…hai una forma di linfoma che si è rivelato resistente alle cure tradizionali. Questo significa che dobbiamo passare ad una terapia di secondo livello” Cristina se lo sentiva, nonostante i suoi sforzi quando alla sera poggiava la testa sul cuscino, passava nottate tormentate; si svegliava in preda al sudore, si sentiva braccata senza forze e senza tregua.
Polichemioterapia ecco la nuova montagna che le si parò di fronte. Il Dottor Leonard le spiegò tutto accuratamente: nei rari casi come il suo, la chemioterapia di seconda linea doveva essere preceduta dalla raccolta delle cellule staminali del sangue pronte ad essere reimpiantate nel suo organismo a fine ciclo. La chemioterapia di secondo livello avrebbe previsto farmaci molto più aggressivi dei primi. Questo purtroppo avrebbe comportato anche effetti collaterali più pesanti anche a carico del midollo osseo con la distruzione di globuli rossi, globuli bianchi e piastrine. Cristina si sarebbe trovata in una condizione di debolezza estrema, sottoposta a mille rischi. Il Dottor Leonard fu diretto “Devi sapere che questo è un percorso obbligato. Ti stai incamminando su un sentiero stretto e ripido ma è l’unico che ti può portare alla guarigione. Non dimenticarti mai della guerriera con la corazza scintillante” Il dottore le consigliò di prendere in considerazione l’idea di proseguire la cura in Italia, forse data la gravità dei trattamenti che avrebbe subito, riteneva importante il supporto psicologico dei suoi familiari. C’era probabilmente anche dell’altro ma il dottore preferì non riferirlo alla sua giovane paziente.
Quando di fronte al pc via Skype spiegò tutto alla mamma e a Gigi, suo fratello, Cristina non versò neanche una lacrima. Sapeva che tornando in Italia avrebbe inevitabilmente condizionato le loro vite, sapeva che avrebbe avuto bisogno di loro ma desiderava che affrontassero il tutto con la massima serenità possibile, quella serenità della quale la malattia l’aveva privata; nessuno più di lei capiva quanto fosse preziosa.
“Crissy ti aspettiamo” le disse sua madre. Si sarebbe sobbarcata nove ore di volo tutta sola. Gigi e la mamma avrebbero voluto prendere il primo aereo per New York ma lei fu irremovibile, sarebbe tornata da sola. Il Dottor Leonard scrisse personalmente un referto dettagliatissimo al primario di oncologia dell’ospedale di Parma, l’intera cartella clinica di Cristina sarebbe arrivata nelle mani dei medici italiani, prima che Cristina varcasse la soglia del nuovo ospedale.
Doveva rinunciare alla sua avventura americana ma seppur provata nel fisico e nella mente Cristina pensò tra sé che quello non sarebbe stato un addio. New York le aveva dato tanto, aveva vissuto giorni entusiasmanti ma soprattutto aveva conosciuto persone stupende. Di ogni volto e di ogni momento speciale, avrebbe conservato un ricordo vivo. Sfortunatamente non sapeva se prima di partire sarebbe riuscita a salutare di persona le sue care amiche. Un mercoledì mattina in ospedale, riuscì ad incontrarsi con Kate che era già alla seconda radioterapia “ciao bella, abbracciami velocemente perché sono un po’ radioattiva” le disse, poi aggiunse “ allora hai deciso di curarti in Italia?” “sì mi dispiace tantissimo dovermene andare ma il secondo ciclo di chemio sarà veramente duro e gli unici che mi potranno stare veramente vicino, sono mia madre e mio fratello” “capisco…e tuo padre?” “lui se n’è andato da anni, non sappiamo neanche bene dove sia…ma noi tre ci vogliamo bene, è questo che conta…voi ragazze mi mancherete un sacco…you are my Angels and I’ll miss you badly” Kate allora le disse :“ io sono convinta che ci rivedremo e comunque quando sarai guarita ti farò di nuovo un bel ritratto” “già questa volta mi disegnerai come un angelo con una corazza scintillante, come dice il Dottor Leonard” “sì sarà proprio così come dice il nostro carissimo Dottor Leonard” poi aggiunse “e non dimenticarti di cercare l’amore, quella è la medicina più potente che abbiamo” sorrisero entrambe complici e con gli occhi un po’ lucidi. In quel momento sui loro smartphone arrivò il medesimo messaggio: “ragazze non riesco a trovare le parole…Melany se n’è andata questa notte, l’ho saputo ora…non riusciva neanche più a mangiare, aveva interrotto la radioterapia” “no… non è giusto…” Fu una notizia tremenda, un dolore incontenibile. Cristina scoppiò a piangere, le lacrime scesero copiose e le annebbiarono la vista. Per un attimo le apparve il volto di Melany, dolce e angelico come sempre. E vide il suo sguardo da sorellina minore indifesa, con quei sui occhi chiari e puri come i suoi sentimenti…lei così buona e così sensibile, strappata all’affetto della famiglia, strappata all’affetto delle sue sorelle adottive. “Gesù perché?!”…non poteva esserci male più grande che la morte di un innocente. Nel lungo corridoio passarono ignare una moltitudine di persone, assalite dalla fretta di spostarsi da un reparto all’altro. Le due ragazze lì in mezzo, si sentirono perdute come al centro di un deserto sconfinato. Si abbracciarono e piansero l’una sulla spalla dell’altra. Nessuno poteva comprendere il loro strazio. Non c’è fratellanza più forte di quella che si crea quando si affonda nel medesimo fango, quando chi è nelle tue stesse condizioni prova a uscirne assieme a te tirandoti per un braccio. Quel tuo fratello lo vorresti tenere per sempre stretto, lì vicino a te.
Due giorni dopo Cristina partì con un bagaglio di ricordi e tante cicatrici. Quelle però erano più forti e dolorose di qualsiasi altra cosa. In quei due giorni, rannicchiata sul divano, si era chiesta mille volte che senso avesse la vita, se esistesse un disegno divino o perlomeno una legge universale del cosmo. Si chiese perché un’anima così nobile e pura come Melany, avesse dovuto morire in quel modo disumano e tragico. Oppure era morta solamente la sua carne…e allora che ne era stato della sua anima? C’era una spiegazione a quella drammatica scomparsa?
In quell’anno e mezzo scarso passato a New York, Matilde era stata la figura di riferimento per Cristina, molto più di un’amica, era la sua confidente, la più grande tra le “sorelle”, la più importante. Quel venerdì mattina, il sole si affacciava pigro lungo le arterie della grande metropoli. Anche il loro taxi si muoveva lento in mezzo al traffico. Entrambe guardarono a lungo fuori dai finestrini senza dirsi una parola. Non c’era molto da dire, l’una poteva indovinare i pensieri dell’altra. Dentro di loro si susseguirono onde emozionali che volutamente lasciarono scorrere libere verso la riva.
Nella semi –oscurità della sera, scese la scaletta dell’aereo, pallida e senza fiato. La nausea l’aveva perseguitata tutto il tempo. Aveva indispettito anche gli altri passeggeri seduti sulla stessa fila, una coppia di mezza età, marito e moglie e un giovane uomo dall’aspetto distinto con valigetta ventiquattrore e tablet. Cristina si era scusata, gli aveva spiegato che non si sentiva bene ma non era servito a molto. Dovette alzarsi più volte per andare in bagno a vomitare anche se alla fine si trattò di falsi allarmi, generati più che altro da una condizione di disagio estremo. A più riprese, si rinchiuse lì dentro per molti minuti, tentando di liberarsi di nausea e dolori ma ne ottenne solo un impercettibile sollievo. Al varco degli arrivi, Gigi e la mamma fremevano. Non vedevano l’ora di riabbracciare la loro Cristina. Anche nella malattia Crissy era il loro orgoglio. Lei non era solo la figlia e la sorella, lei era quella parte di loro che ce l’aveva fatta, il riscatto dei loro fallimenti. Quando poco più di un anno prima se n’era andata per la sua strada, Gigi e la mamma avevano sofferto in silenzio la sua mancanza. Avevano cercato di farsi forza l’un l’altro ma era stata dura.
La verità era che le volevano troppo bene per cercare di trattenerla in qualche modo e poi, in fondo, speravano tornasse felice e realizzata. Invece il destino le si era inspiegabilmente rivoltato contro.
La videro apparire in mezzo alla folta truppa di passeggeri, ancora più magra di quanto gli fosse apparsa allo schermo del computer. Trascinava a fatica un grosso trolley sormontato da un’altra valigia voluminosa. Quei bagagli pesavano quasi quanto lei e il suo corpo provato, faticò non poco a sostenere quello sforzo. Poi li vide da lontano ma riuscì solamente ad abbozzare un improvvisato cenno di saluto. Si muoveva in un equilibrio precario, le valige si sarebbero potute ribaltare da un momento all’altro. Finalmente dopo un ultimo sforzo, fu tra le loro braccia. La mamma la riempì di baci, mentre Gigi trattenuto dalla sua personale timidezza gliene diede solo uno sulla guancia. La osservò trasformata nel fisico, esile come un fuscello, così diversa da come l’aveva lasciata. Crissy con quella strana fascia colorata ad avvolgere la sua testolina. Crissy partita sicura dei propri mezzi ma tristemente tornata bisognosa di mille attenzioni. Dormirono in un hotel vicino all’aeroporto, sarebbero ripartiti l’indomani mattina di buon ora. In camera, prima di darsi la buonanotte la mamma vide la sua bambina infilare a fatica i pantaloni del pigiama, con movimenti lenti e incerti. Le parve fragile e indifesa come quando a cinque o sei anni le raccontava le storie per farla addormentare. Quando Cristina si ficcò nel letto, era davvero sfinita. Affondò esanime e febbricitante nel materasso. Il giorno dopo le fece una certa impressione ritornare nella sua cameretta. Anche se in fondo era passato circa un anno e mezzo, la sua vita era molto cambiata e lei non era più la stessa ragazza di prima. In quel lasso di tempo aveva realizzato alcuni dei suoi più grandi desideri ma poi come una luminosa stella cadente, si era staccata dal firmamento precipitando verso il basso. Qualcuno forse avrebbe visto la sua scia luminosa ma ora a lei non rimanevano altro che dolore e tenebre. Nella sua cameretta con bella vista verso valle, era tornata là da dov’era partita, là dove aveva concepito i suoi sogni di giovane donna. Sdraiata sul letto, posò lo sguardo sulla foto del suo gatto. Il suo Asso ormai se n’era andato già da due anni. Si ricordò quanto si erano voluti bene. Asso tutte le sere si infilava in camera sua dalla fessura della porta che Cristina lasciava accostata. Poi saltava sul letto, sopra le coperte e si accucciava ai suoi piedi. Alla mattina qualche minuto prima che suonasse la sveglia, avvicinava il suo musetto alla faccia di Cristina così lei si sarebbe svegliata dolcemente al suono del suo ronron. Le venne da piangere, Asso se n’era andato troppo presto…perché la vita riservava tanto dolore? “Asso, forse presto ti raggiungerò, mi manchi tanto”. Appesa al muro dall’altra parte della stanza c’era una foto di gruppo scattata con le amiche in riva al mare. Era il ritratto di giovani sirenette spensierate. Sebbene fossero passati solo pochi anni, quella ragazza là in mezzo, le sembrò irriconoscibile. La foto risaliva agli anni dell’università con le amiche del paese, meno sofisticate rispetto alle ragazze di città ma sempre allegre e sincere e di ottima compagnia. Quella Cristina aveva di fronte a sé un ventaglio di possibilità infinite, faceva un male tremendo ricordare quegli anni proprio ora che non aveva quasi nemmeno la forza di alzarsi dal letto.
Quel giorno Cristina perse la cognizione del tempo, abbandonata nel letto in uno stato semi-vegetativo. Poi alla sera finalmente rientrò Gigi dal lavoro. Giusto il tempo di appendere la giacca all’attaccapanni e togliersi le scarpe, andò subito dalla sorella. Si mise a sedere sul fianco del letto “Ciao sorellona, ti vedo proprio riposata…” poi sorridendo le disse: “ indovina un po’ chi c’è qui con me…” Cristina ci pensò un attimo, le avrebbe fatto certamente piacere rivedere qualcuna delle sue vecchie amiche “ ta ta da dam! La Betta!” da dietro la porta sgusciò fuori l’amica che fece un balzo in avanti ed esclamò “Crissy!!” Appena la vide, Cristina si sollevò dal cuscino e si mise a sedere. Con voce sommessa e gli occhi lucidi, le disse “vieni bella, vieni”. Nonostante ogni tanto si scambiassero qualche messaggio, la Betta si era fatta solo una vaga idea del suo reale stato di forma. “Crissy mi dispiace tanto di vederti così. Tu non te lo meriti proprio” L’amica l’abbracciò delicatamente senza stringerla troppo, aveva paura di farle male. Poi per spezzare l’atmosfera di commozione le disse: “ secondo me ti sei fatta questo taglio di capelli per conquistare qualche nuovo maschietto” “ah capirai adesso mi sono buttata sul genere spaventapasseri, a quelli piaccio di sicuro…son contenta di rivederti, raccontami un po’ come va” “Crissy ma che vuoi che ti racconti, non ci sono grossi cambiamenti” poi la Betta ci pensò un attimo “anzi a pensarci bene qualche novità c’è…la Franci si è messa insieme con un tizio, Matteo…lui lavora coi Santermi, cura le bestie, ara e semina i campi…tutto quello che c’è da fare” “boh non lo conosco” disse Cristina “sì, forse il nome non ti dice nulla perché lui è molto più grande di noi…quasi un vecchio” commentò sarcastica la Betta, poi aggiunse “noi glielo abbiamo detto che avrebbe potuto trovarsi di meglio…anche i suoi non è che fossero felici. Però ormai sarà quasi un anno che sono insieme, è successo poco dopo che sei partita tu…sembra proprio che stiano bene, per cui è quello che conta”. La Franci era forse quella che ad ogni uscita si metteva più in tiro di tutte, aveva un bel fisico, una ragazza piuttosto appariscente. I pretendenti non le erano mai mancati eppure aveva pescato fuori dal mazzo. Cristina pensò quanto fosse straordinario il fatto che le leggi dell’amore superassero di gran lunga le leggi scritte degli uomini “quando la vedi salutamela, sono contenta che sia felice”. Cristina le spiegò a grandi linee cosa la aspettava ora in Italia, le disse che probabilmente per un po’ non avrebbe potuto vedere nessuno dato che le cure l’avrebbero debilitata tantissimo. Però non le fece alcun cenno della paura che aveva di morire. Quel senso incombente dell’abisso che abitava i suoi sogni tormentati, quello non riusciva a confidarlo a nessuno. Era dentro di lei e anche se lo cercava di allontanare ogni giorno con tutte le forze, aveva paura di non farcela. Parlarono ancora un poco del più e del meno, del lavoro monotono da cassiera dell’amica che doveva farsi sessanta kilometri al giorno per andare a lavorare nell’unico grande supermercato a fondovalle. Parlarono delle amiche, Valentina sempre fidanzatissima con un figlio di buona famiglia, i genitori della Lalla sempre in crisi da anni. Poi Betta si accorse che Cristina era troppo affaticata, allora si congedò abbozzando un nuovo abbraccio “ ti ho stancata, riposati” “non preoccuparti Betta, mi ha fatto un enorme piacere rivederti”. Quando l’amica fu ormai di spalle sulla soglia della porta semichiusa, ebbe una nuova esitazione, poi si affacciò presa dall’urgenza di comunicare un’ultima cosa a Cristina “sai Alessio è di nuovo solo, ci aveva provato con la Saretta ma non ha funzionato. Io non so cosa gli passi per la testa ma ecco… mi sembra giusto che tu lo sappia”.
L’Ospedale Maggiore fu la successiva fermata del suo percorso ad ostacoli. A poche centinaia di metri c’erano le aule di Università dove Cristina aveva studiato Biologia. Ritornare in città lungo quelle vie che aveva attraversato da studentessa, le faceva uno strano effetto. Le pareva fosse ieri, ricordava l’orgoglio e le aspettative che avevano suscitato in lei gli anni di Università. Ora invece era chiamata ad interpretare una parte che non aveva mai neanche lontanamente immaginato. Fu una specie di ripartenza, in oncologia avrebbe incontrato nuovi medici, nuovo personale sanitario e nuovi malati come lei.
Alle dieci del lunedì mattina aveva la visita preliminare fissata col nuovo medico oncologo che l’avrebbe seguita. La mamma naturalmente era con lei.
La Dottoressa Annalisa Ricci si era già portata avanti col lavoro. Confrontandosi con i colleghi, aveva esaminato il quadro clinico della sua prossima paziente: “piacere di conoscerti Cristina, so già parecchie cose sul tuo conto ma non sono soddisfatta, voglio conoscerti meglio, anzi voglio sapere tutto di te”. Fecero una lunga chiacchierata durante la quale la Ricci cercò di far parlare la ragazza, di metterla a proprio agio. Avrebbe potuto avere l’età di sua mamma, a Cristina parve subito una donna molto decisa ma anche premurosa. La dottoressa le disse che aveva tenuto una video-conferenza col Dottor Leonard per analizzare il suo quadro clinico “ il confronto con i colleghi è sempre un’occasione di arricchimento nell’ottica di supportare al meglio i nostri pazienti. Ho molto apprezzato il lavoro del collega americano quindi sostanzialmente proseguiremo il piano terapeutico così come lui l’aveva impostato”. La dottoressa le spiegò a grandi linee come avrebbero proceduto poi si interruppe e la sua voce cambiò tono: “ il Dottor Leonard ti avrà sicuramente reso noto a quali rischi e quali effetti collaterali andrai incontro. Per questo motivo, quando inizieremo il nuovo ciclo, dovremo ricoverarti. Tu sai meglio di me quanto sarà dura ma sappi che io sarò sempre a tua disposizione”.
Aveva volato sopra l’Oceano per tornare in Italia. Ma forse la rotta era sbagliata, forse il volo era precipitato in qualche vallata himalayana. Ora vedeva le spaventose pareti verticali che la sovrastavano ma non scorgeva la vetta.
Il primo impatto con l’ospedale italiano fu contradditorio. Il reparto di Oncologia Medica era sovraffollato, caotico. Rivide quelle facce consunte di giovani uomini e donne, così simili alla sua, con le stesse espressioni sui volti che aveva incrociato anche al di là dell’oceano. Però a differenza dell’ospedale americano, le varie specialità di oncologia a Parma erano raggruppate in un’unica struttura, così Cristina si trovò in mezzo a malati di tutte le età, affetti dalla più disparate forme tumorali. Si imbatté in una moltitudine umana dolente, silenziosa, ognuno accompagnato da qualche amorevole parente. Le parve subito evidente il contrasto tra gli spazi insufficienti a contenere un così elevato numero di pazienti e la prodigalità del personale sanitario. La quotidiana situazione di disagio dei pazienti era blandita per contrasto dall’umanità di medici ed infermieri. Cristina registrava tutto, ogni volto, ogni singolo comportamento, ogni sbalzo d’umore nell’aria. La malattia tanto più è aggressiva, tanto più trasforma il malato in un essere sensibile, come se sviluppasse dei recettori sensoriali che le persone sane non hanno.
La mattina stessa venne accompagnata in un altro ambulatorio dove le fecero dei prelievi di sangue e le somministrarono la prima iniezione del fattore di crescita. Il suo midollo necessitava di essere stimolato nella produzione di cellule del sangue in modo da fornire una quantità sufficiente per la raccolta delle staminali. Ogni giorno della settimana la mamma le fece una puntura di proteine cellulari nella pancia con l’auspicio che i valori del sangue si incrementassero. Mamma Stefania si trasformò nel giro di pochi giorni in un’incredibile infermiera. D’altronde nessuno meglio di lei conosceva il significato delle parole sacrificio e servizio. Lei che si ritrovò sola in casa con due bambini di dieci e undici anni, abbandonata dal marito. Quel padre e quel marito che compariva all’improvviso e quasi altrettanto improvvisamente, svaniva nel nulla. Diceva che per colpa del suo lavoro doveva starsene lontano da casa per dei giorni. Ma poi i giorni divennero mesi e i mesi anni. Alla fine smisero di credere alle sue bugie. Gigi però fu quello che ne soffrì più di tutti, senza l’esempio del padre, crebbe timido ed introverso. La signora Stefania non desiderava altro che la felicità dei suoi figli, avrebbe donato la sua vita pur di veder guarire la su Crissy. Quelle nuove iniezioni portarono in dote alla ragazza nuovi dolori alle ossa. I sintomi della malattia al termine dei primi cicli di chemio, sembravano essere diminuiti d’intensità. Ma fu solo un’illusione transitoria, presto sudorazioni e prurito tornarono a tormentarla di notte. Si cospargeva di crema idratante ma la sua pelle diventava ogni giorno più secca e sensibile. Fastidiose irritazioni allo sterno, al collo, ai glutei non le davano pace. Insonne, in piena notte, era presa da attacchi di prurito e nausea. Al culmine di tutti quei disturbi, il respiro si faceva affannoso, quasi apnea. E poi dolori, dolori ovunque. Solo verso mattina si assopiva sfinita da quel tormento.
Dopo circa dieci giorni gli esami del sangue rilevarono un numero di cellule sufficienti per procedere alla loro raccolta e conservazione. Il tragitto in macchina verso l’ospedale, durò più di un’ora, un tempo sufficiente per parlare serenamente con la mamma. Avevano quasi un anno e mezzo di arretrati. Certo, durante quel lasso di tempo si erano sentite spesso al telefono ma non poteva essere la stessa cosa. La signora Stefania aveva voluto rispettare l’indipendenza della figlia, così non le aveva mai fatto troppe domande, quando si sentivano preferiva lasciarla parlare liberamente. Ora però avrebbe voluto capire cosa significasse per Cristina, aver dovuto rinunciare a New York. Poi alla radio passarono “Io ti cercherò” di Jovannotti. Lui che era stato il suo amato compagno di viaggio sui treni dell’università, ancora lui, le sue canzoni ancora vive in fondo al cuore…
“ io ti cerchero’ negli occhi delle donne
che nel mondo incontrero’
e dentro quegli sguardi mi ricordero’ di noi
chissa’ se si chiamava amore ”
La mamma le disse “senti ma…” Cristina però le posò la mano sul braccio “aspetta un attimo mamma”
“ nei tuoi occhi mi ritrovo
nell’attimo prima in cui sto per baciarti
l’universo si ferma un istante
perche’ vuole ammirarti
tutto il resto mi passa alle mani
come la sabbia del mare
resta solo un diamante che brilla
e che continua a brillare
ogni volta che mi torni in mente
continua a brillare in un angolo della mia mente
ti continuo ad amare “
La signora Stefania capì, lasciò correre quelle parole e con esse i pensieri della figlia. Cristina divenne improvvisamente silenziosa, era fin troppo chiaro a chi stesse pensando.
Evidentemente gli ospedali italiani erano molto più piccoli di quelli americani. Ok Parma non era New York però anche il reparto di ematologia si rivelò troppo affollato. Oppure era solo un impressione di Cristina. Quella mattina avevano appuntamento alle nove, la raccolta delle cellule staminali avrebbe richiesto almeno quattro ore di tempo. Il sangue periferico venoso sarebbe stato filtrato dal separatore cellulare in modo da raccogliere il maggior numero di cellule possibili. Di fronte all’ambulatorio c’erano altri pazienti che come lei erano in attesa di essere visitati. Le cose andarono per le lunghe. Un unico dottore assistito da un infermiera, avrebbe dovuto visitare un numero consistente di malati prima di destinarli alle rispettive terapie. Quella mattina Cristina incrociò nuovi sguardi e fece amicizia con Antonio. Lui era un ragazzo calabrese affetto da un tumore diffuso alle ossa. Se ne stava seduto su una sedia a rotelle, le disse: “certe volte il tempo non passa mai…comunque piacere Antonio” “ciao io sono Cristina” “ va bene, inizio io” disse il ragazzo e proseguì “Osteosarcoma, si chiama così. E’ un tumore alle ossa, il maledetto se ne sta sempre in agguato e quando pensi di essertelo lasciato alle spalle, lui sbuca fuori e ti aggredisce di nuovo. Pensa che ero anche ritornato a correre ma nel giro di un paio di mesi mi ha sbattuto di nuovo sulla sedia a rotelle” “beh se ti può consolare, io anche senza essere sulla sedia a rotelle, me lo posso solo sognare di tornare a correre. Per me è diventata anche solo un’ impresa fare le scale che dividono il soggiorno dalla camera da letto” Antonio le chiese: “ contro quale bestiaccia stai combattendo?” “è un Linfoma…e nel mio caso la bestiaccia è parecchio aggressiva”. Antonio diede l’impressione di starci scomodo su quella carrozzina, ingobbito e sprofondato lì dentro, con un marsupio nel grembo dove teneva i suoi effetti personali. Cristina invece sembrava una Biancaneve moderna in tuta da ginnastica. Nonostante le premure della mamma, diventava ogni giorno più magra. Però il cortisone in quei giorni le fece gonfiare la faccia. Ma nemmeno il corpo sformato riuscì a cancellare la sua naturale dolcezza. Anche in quelle condizioni estreme di sofferenza fisica, Cristina mantenne una bellezza d’animo che si rifletteva persino nel corpo malato. “Come avrai capito dal mio accento, io sono di giù…ma sono venuto qui a Parma perché ho degli zii che mi ospitano. E qui come potrai immaginare, il livello delle cure è migliore” poi aggiunse “però non ho amici, mi sono trasferito un mese e mezzo fa quando mi hanno operato. Sono praticamente sempre in ospedale, i miei unici amici sono gli infermieri…” il ragazzo abbassò lo sguardo e sorrise amaramente. Poi le disse che gli mancava il suo lavoro nella vetreria del padre. Lui e il papà avevano una piccola officina dove producevano un po’ di tutto, dai vetri per gli infissi alle vetrate istoriate per chiese, negozi o clienti speciali “ il mio lavoro è molto importante per me, è qualcosa che mi appassiona, quando posso esprimere la mia creatività mi sento gratificato. Adesso mio padre laggiù è da solo, mi dispiace perché soffre anche lui come me. E io mi sento in colpa.” Antonio le parve proprio un gran bravo ragazzo, anche lui dopo la raccolta delle staminali avrebbe cominciato un nuovo ciclo di chemio, sicuramente si sarebbero rivisti in qualche ambulatorio o sala d’aspetto “ sono caduto e mi sono rialzato già parecchie volte. Mi sono rotto anche le ossa e poi in qualche modo me le hanno sempre aggiustate. E poi sono caduto di nuovo…ecco ci vuole molto coraggio ma io non ho mai pensato di avercene abbastanza. Eppure sono ancora qui…o forse è semplicemente incoscienza, chi lo sa” Già, Cristina conosceva quella sensazione “ah io voglio diventare una guerriera dalla corazza scintillante come diceva il mio vecchio dottore” “Wow fantastico, l’idea mi piace” disse Antonio “…e sai come si fa??” “mmm più o meno…più che altro lo sto imparando giorno per giorno”
Mamma Stefania dalla sua sedia li ascoltò compiaciuta, per i due ragazzi quei lunghi minuti di attesa volarono via leggeri. Fino a che l’infermiera chiamò Cristina. Dopo la visita e l’ennesimo prelievo di sangue venne accompagnata in una stanzetta stretta e lunga dove erano sistemati due o tre macchinari separati tra loro da pannelli divisori di color verde. Purtroppo in quell’ambiente i pazienti non potevano vedersi e così la seduta le sembrò dovesse durare in eterno. Fortunatamente dopo circa una mezz’ora vide entrare anche Antonio che venne accomodato nel box adiacente “vorrei sostituire queste pareti con le mie vetrate artistiche decorate con motivi floreali dai colori accesi, questo buco triste cambierebbe aspetto” “ è vero, hai ragione, certe volte gli ospedali sembrano brutti come il carcere” “ma perché, ci sei stata?” “ma noo, che c’entra?!” ” hey… scherzavoo”. Antonio e Cristina proseguirono a parlare anche così, senza vedersi. Antonio le chiese cosa facesse prima dell’ospedale e Cristina le raccontò della sua esperienza a New York e delle carissime amiche che aveva lasciato laggiù. Nulla li distolse dalle loro chiacchiere al confessionale, nemmeno l’ingresso di un nuovo paziente nella stanza.
Un sorriso, una gentilezza, un incontro piacevole. Quelli erano i momenti in cui Cristina riassaporava di nuovo la vita. Ma duravano sempre troppo poco. Infatti non ci fu tregua per lei, nel giro di un paio di giorni si sarebbe dovuta ricoverare per il nuovo ciclo di chemio. Ormai si era trasformata in una specie di fantasma notturno. Durante quelle ore infinite nel buio della sua stanza, l’unico modo per non pensare ai suoi disturbi, fu quello di pensare ad altro. Si chiese dove fosse suo padre, pensò che una famiglia unita avrebbe potuto affrontare quella situazione con più forza e coraggio. Non tanto per lei, quanto invece per mamma e Gigi. Lei sapeva di essere più forte di loro, forse il suo carattere era più simile a quello del padre. Loro invece erano riservati, taciturni. L’assenza di quell’uomo, negli anni gli era pesata addosso come un macigno. Ogni notte tornò ad interrogarsi sul significato della vita. La sua amica Kate aveva ragione…perché tutti quegli inutili sforzi per risalire la scala sociale? Per raggiungere traguardi effimeri che al massimo avrebbero dato un maggior accumulo di beni materiali. Ma mai la felicità. E ancora, perché quel senso infinito d’insoddisfazione? Quella brama malsana di accumulo, di possesso? E cosa diavolo era quel bisogno di sentirsi sempre al passo coi tempi, al passo con gli altri? E infine, perché quell’ impulso di evasione, di sballo? Da cosa, da chi?? In quelle ore buie era cosciente più che mai del fatto che forse presto avrebbe dovuto lasciare tutto. Ogni notte si domandò quanto valesse la sua vita e che significato avesse. Si domandò che significato avesse quella malattia, se il dolore fisico e mentale fossero fine a se stessi oppure conducessero ad una dimensione umana e spirituale nuove. Ogni notte fu combattuta tra il senso dell’ineluttabile e la speranza. In mezzo a quel tumulto di domande dirompenti comparve anche Alessio. In principio fu come il ricordo di uno sbaglio, uno scambio di persona involontario. Poi le apparvero immagini di loro due felici in compagnia di amici. Immagini di Alessio in macchina che sorrise appena la vide sbucare dalla porta di casa. Immagini di loro due fianco a fianco in riva al fiume a parlare di come andavano le cose. E si rivide in mezzo a un mercato affollato di bancarelle e persone, disorientata in mezzo a quel caos. E poi sentì il calore della mano di Alessio congiungersi alla sua e guidarla dolcemente attraverso quella ressa umana.
Le amiche dall’altra parte dell’Oceano le mandarono continui messaggi d’incoraggiamento. Matilde la chiamò dicendole che non se la sentiva di cercarsi un’altra coinquilina, le mancava troppo la sua “sorellina” e quella confidenza che si era creata fra loro. Sofia invece le disse che stava scrivendo un diario sulla sua malattia e un capitolo intero lo avrebbe dedicato a lei. Infine Kate le inviò una foto di un loro ritratto che aveva incorniciato: raffigurava quattro angeli attorno ad un cerchio luminoso. “ Hey se vuoi essere una guerriera dalla corazza scintillante, ricordati dell’amore. Quella è la forza più straordinaria che ci è stata donata. Ma fai attenzione, funziona solo se la sappiamo condividere”. Quelle parole scritte sul retro della foto, in quel momento furono per lei una specie di rivelazione e la commossero profondamente. Lì seduta a gambe incrociate sopra il suo letto mentre teneva tra le mani tremanti quel prezioso pensiero dell’amica, fu sopraffatta dalle lacrime. Prese lo smarphone e con la voce rotta dal pianto registrò un messaggio colmo di gratitudine e affetto per Kate.
La mattina del ricovero la mamma e Gigi erano più tesi di lei. Gigi prima di andare al lavoro bussò alla sua porta “sorellona fatti dare un abbraccio, ti verrò a trovare il prima possibile” Non si ricordava di un suo abbraccio da anni e anni, seduta sul letto le disse con affetto “ vieni qua pasticcione”. Le tornarono in mente i primi anni della loro adolescenza quando tornavano da scuola e lei gli riscaldava il cibo che la mamma aveva preparato la sera prima. Mangiavano soli, in attesa che la mamma tornasse dal lavoro. Gigi appena entrava in casa, buttava lo zaino sul letto, il giubbino su una sedia e le scarpe in mezzo al corridoio. Poi le diceva “ho fame, ho fame, sbrigati!”. Il pasticcione mangiava con una fame atavica e se Cristina gli chiedeva qualcosa lui rispondeva sempre a monosillabi; poi quando avrebbe abbandonato il suo posto a tavola, Cristina si sarebbe trovava di fronte ai resti di un campo di battaglia. Più tardi però nel pomeriggio sarebbe tornato a cercarla, le avrebbe infilato le sue cuffie e le avrebbe detto “senti questo” con i bassi sparati e la sua musica urlata al ritmo di cento battute al minuto. Oppure le avrebbe chiesto un aiuto con i compiti. In quegli anni Cristina fu inconsapevolmente un punto di riferimento per il fratello.
Sembrarono ricordi lontanissimi mentre i giorni presenti furono una continua prova di resistenza. La mamma dentro di sé era molto preoccupata, la sua Crissy le sembrava troppo debole e malata per resistere alla forza distruttrice di quel complesso micidiale di farmaci. Si misero in viaggio verso l’ospedale, Cristina guardava il paesaggio della valle scorrere lento fuori dal finestrino. I rilievi montani pian piano si addolcirono e il letto del fiume si allargò dividendosi in mille rivoli e corsi d’acqua. Col passare del tempo, i viaggi in ospedale con la mamma diventarono una sorta di viaggi dell’anima, ogni volta colmi di dubbi e di speranze “ Sai mamma, le mie amiche di New York non smettono mai di scrivermi, sono ragazze straordinarie; anche se siamo lontane migliaia di kilometri, loro indovinano ogni mio pensiero e io le sento davvero vicine” “come vedi, ti devi fare forza anche per loro e per tutti quelli che ti vogliono bene” “ sì certo mami, lo farò…anche qui in Italia ci sono molte persone che mi vogliono bene. Si sono rifatte vive la Lalla, la Franci e la Vale…ma in cima alla lista ci siete voi due, lo sai” “… e poi devo lottare fino alla fine anche per quelli che non ce l’hanno fatta, come la mia amica Melany. Lei era un vero angelo, una creatura innocente che chiedeva solo amore, invece la malattia le ha tolto tutto, persino la compagnia degli amici”.
Anche l’estate andò scemando ma in fondo Cristina non avrebbe avvertito grosse differenze. Erano mesi che conviveva forzatamente con il Linfoma. La primavera e l’estate erano passati pressoché indisturbati sullo sfondo della sua vita. C’erano state splendide giornate di sole durante le quali purtroppo aveva passato la maggior parte del tempo sotto le luci artificiali nelle stanze d’ospedale. Poi quando era tornata nella sua splendida valle si era dovuta accontentare di osservare il paesaggio estivo appoggiata alla finestra della sua camera da letto. Un paio di volte, all’ora del tramonto con quel briciolo di energia che aveva ancora in corpo, si era recata in fondo alla via accompagnata dal fratello. Per lei imboccare quel sentiero che portava al monte, era stata una gioia segreta. Ah quanta vita si nascondeva nel folto della vegetazione, tra i rovi e nel fitto intreccio di rami…aveva percepito ogni minimo dettaglio sonoro prodotto dalla più piccola delle creature selvatiche, aveva inalato a fondo tutti gli indecifrabili aromi delle essenze vegetali. Aveva fissato il cielo col naso all’insù, ammirandone l’immensità e la bellezza . Quel seppur minimo contatto con la natura le aveva fatto sperimentare la grandiosità del creato, amplificata dalle privazioni alle quali la malattia l’aveva costretta. Nessuno meglio di lei avrebbe saputo cogliere quella dimensione magica, così reale eppure così stupidamente sottovalutata dalle persone normali. Cristina ne era perfettamente conscia.
La mattina che si ricoverò in oncologia, il sole si stagliava alto nel cielo limpido di fine estate. Le pareti del reparto erano colorate con tinte vivaci per infondere positività nei pazienti. Dopo essersi presentata all’accettazione, la attendeva un colloquio preliminare con la Dottoressa Ricci, affiancata da un collega “ Buongiorno Cristina, come forse tu saprai, questo colloquio ha lo scopo di fare il punto sul tuo percorso terapeutico pregresso e nel contempo informarti in maniera più ampia possibile riguardo ai trattamenti che riceverai durante il ricovero” La Ricci si confermò quella donna diretta e senza fronzoli che aveva conosciuto al primo appuntamento in ospedale. Le spiegò che la somministrazione della nuova chemio sarebbe avvenuta in tre cicli di infusioni, ognuno della durata di quattro giorni. Alcuni chemioterapici le sarebbero stati infusi con una pompa durante tutto l’arco della giornata, altri invece a fasi alterne. Ma quella non sarebbe stata altro che la prima fase della nuova battaglia. Se tutto fosse andato bene, sarebbero seguite tre o quattro settimane di radioterapia. “ Cristina forse sai già cosa ti aspetta ma comunque è mio dovere farti presente che al termine delle chemio i tuoi valori di globuli bianchi, rossi e piastrine saranno bassissimi. Sarai sottoposta al rischio di ematomi e versamenti. Ma non è finita qui. Le tue difese immunitarie saranno ridotte al minimo e conseguentemente sarai a rischio infezioni. Questo rischio rimarrà alto anche durante la radioterapia” Cristina non fece una piega, l’unica cosa che sapeva, era che avrebbe dovuto cercare di resistere giorno per giorno. Poi intervenne il collega seduto a fianco della Ricci “ sai Cristina, può sembrare un bollettino di guerra e forse in parte lo è. Ma è proprio per questa ragione che noi abbiamo il dovere di informare a fondo i nostri pazienti. Non per spaventarli ma per renderli pronti ad affrontare le difficoltà. Ci sono tutta una serie di effetti collaterali che ora andremo ad esporti. Tutti i pazienti seduti al tuo posto prima di te, hanno avuto paura. Ma devi sapere che tutto il dolore che hai provato fino ad ora e quello che proverai in futuro, può avere una fine. Devi sapere che se la tua mente è pronta a reagire al dolore, allora lo sarà anche il corpo.”
In oncologia riconobbe quei volti dolenti che aveva già incrociato giorni prima. Il reparto era un ambiente ovattato, i suoni quasi assenti, le voci sommesse. In fondo al lungo corridoio, oltre le camere di normale degenza c’era il settore BCM, basso contenuto microbico. Cristina venne sistemata in una camera sterile. Questo comportò tutta una serie di precauzioni e misure di “sicurezza” per limitare al minimo l’introduzione di microbi e batteri. Gli effetti personali di Cristina sarebbero stati tutti disinfettati. A casa la mamma aveva lavato tutta la biancheria della figlia con amuchina e l’aveva riposta in buste sigillate fornite dall’ospedale. L’atmosfera stessa della camera era controllata, l’aria filtrata per eliminare qualsiasi contaminazione esterna. Mamma Stefania dovette indossare camice, sovrascarpe, cuffia e mascherina per potervi accedere. La finestra era sigillata e la porta d’ingresso dotata di chiusura elettronica per limitare gli accessi solo al personale strettamente autorizzato. Durante il colloquio preliminare i medici le avevano anticipato anche questo. Durante i cicli di somministrazione della chemio sarebbe rimasta praticamente tutto il tempo rinchiusa in quella camera. Al massimo avrebbe potuto sostare per pochi minuti al giorno nella sala d’accesso anch’essa in atmosfera sterile. Quella condizione di isolamento avrebbe minato ulteriormente il suo morale. In compenso la stanza era piuttosto spaziosa, fornita di tutto il necessario: un grande televisore a schermo piatto, due belle poltrone e un quadro appeso ad ogni parete. Vi erano rappresentati grandi paesaggi naturali con fiumi sconfinati e impervie cime montuose all’orizzonte, una prateria in fiore, un quadro impressionista e un immagine del ponte di Brooklyn attraversato da un fiume di podisti durante la maratona. La sua New York racchiusa con lei in quella stanza, in marcia verso la maratona della vita. C’era anche una cyclette per permettere un po’ di movimento ai pazienti anche se a Cristina sembrò paradossale, difficilmente ce l’avrebbe fatta ad usarla. In ultimo c’era un abbattitore microbico dove riporre bicchieri o cose simili. Ma nonostante quell’ambiente fosse così ordinato e ben messo, Cristina sentì salire dentro di sé un’ angoscia crescente. La mamma glielo lesse sul volto e cercò subito di tranquillizzarla: “ Dai Crissy è molto meglio di come ce l’eravamo immaginata…” Dopo una prima occhiata, Cristina si diresse alla finestra ed ispezionò la vista della città da quel punto d’osservazione. Ne rimase però un poco delusa perché scorse solo un ammasso di palazzi anonimi che soffocavano alberi sofferenti lungo viali disordinati. Nessuna traccia del Parco Ducale e tantomeno del fiume. In lontananza intravide confusamente la sagoma del Palazzo della Pilotta. Poi fortunatamente, con un sospiro di sollievo riconobbe all’orizzonte la linea magica del suo amato Appennino. Purtroppo però l’unico spazio di libertà a corto raggio, fu solo uno scorcio di un campo da calcio attorniato da un gruppo di querce. Passò la sua prima notte in oncologia senza chiudere occhio. E come spesso le era accaduto fu tormentata dai dolori, dal prurito e da quel senso di oppressione che le toglieva il respiro.
Il giorno seguente iniziò la terapia. Le infermiere entrarono ed uscirono dalla sua stanza tutte bardate da capo a piedi. Si mossero rapide, svolgendo meticolosamente tutte le operazioni di disinfezione, cambiando le sacche dei medicinali e andandosene il prima possibile. Giusto il tempo di una battuta e via. Il Porter che aveva sotto pelle, era sempre collegato a qualche flebo, giorno e notte. Si sentì sola più che mai. Per fortuna ogni giorno la mamma restava a lungo con lei. Qualche volta le dava il cambio Gigi. Venne a trovarla di nuovo la Betta. Ma poi le condizioni di Cristina precipitarono. L’impatto aggressivo della nuova chemio, si fece sentire. Durante il giorno cominciò ad essere assalita da una tosse fastidiosa, poi si manifestò una brutta infiammazione al cavo orale. Cominciò con un crescente dolore accompagnato da ulcere sparse in bocca. Erano delle vere e proprie piaghe sanguinolente che i dottori cercarono di curare con delle soluzioni antisettiche e con antibiotici. Ma il bruciore e il sanguinamento sembrarono aumentare quotidianamente. Per effetto di questa situazione Cristina non riuscì più ad alimentarsi correttamente. Le vennero somministrati dei pasti sempre più liquidi ma fece fatica anche a deglutire. Poi spesso quello che mangiava lo vomitava in bagno. In pochi giorni dimagrì sensibilmente. Non era mai stata così debole. Al sesto giorno la febbriciattola si trasformò in un febbrone da cavallo. Le infermiere le somministrarono massicce dosi di antidolorifici. La mamma portò due asciugamani morbidi che imbevve di acqua fresca del rubinetto. Poi all’insaputa di infermieri e dottori fece degli impacchi rinfrescanti alla figlia. Li adagiava sulla fronte oppure tamponava col massimo della dolcezza il collo, un braccio, il petto, ovunque Cristina provasse irritazione o bruciore, persino l’inguine e l’interno coscia. “mami lo so che non ti saresti mai immaginata tua figlia ridotta così…mi spiace, avrei dovuto restare in america” mentre la mamma le stava rinfrescando il collo, si allungò per darle un bacio sulla fronte “ la mia bambina…sei diventata una donna stupenda, coraggiosa…passerà, passerà tutto.”
Da un giorno all’altro le comparvero dei lividi un po’ ovunque. Si trattò di piccoli ematomi causati dal basso numero di piastrine nel sangue. Macchie bluastre sulle braccia, sulle gambe , sul collo.
Durante l’ennesima notte in bianco tra febbre, prurito e dolori, ebbe una vera e propria crisi respiratoria, in preda al panico chiamò a più riprese le infermiere di turno che non seppero bene che pesci prendere. Poi fu la volta di uno strano formicolio che partì dalla clavicola sinistra, salendo lungo il collo e andando ad interessare anche la guancia e lo zigomo. Cristina già in panico e senza fiato, perse il controllo e si mise ad urlare: “ aiutoooooo!” Ma fu inutile, non la sentì nessuno. La porta della sua stanza era chiusa per mantenere l’atmosfera sterile mentre le infermiere stavano preparando dosi di farmaci per altri pazienti. “Aiutooooo” urlò di nuovo per provare a se stessa che fosse ancora viva e allontanare la paura. Era sudata e terrorizzata ma soprattutto il suo respiro affannoso era diventato un rantolo, un suono distorto di un povero animale moribondo. Senza rendersene conto, riuscì a scostare le coperte e scivolò su un fianco del letto fino a cadere a terra. Rimase minuti forse ore rivolta a pancia in giù producendo quel sinistro lamento di morte. Passò un’eternità nel buio senza fine della notte. Ma sorprendentemente come un subacqueo in apnea, alla fine riuscì a riemergere dall’abisso. Trovandosi ai piedi di una delle due poltrone, vi si aggrappò in qualche modo fino ad issarsi in piedi. Giunse così quell’ora in cui la notte varca il confine dell’oscurità per accogliere le prime luci dell’alba e Cristina a tentoni riuscì a raggiungere la finestra. Così, esanime e completamente svuotata da qualsiasi reazione umana, se ne stette appoggiata malferma allo stipite, guardando fuori. Passarono ancora lunghi minuti durante i quali oltre le sagome dei tetti il cielo mutò tonalità cromatiche da nero a blu scuro a grigio-azzurro con riflessi arancio, rosati e poi via via sempre più chiari. Cristina con quel suo respiro corto e la gola secca e bruciata, non si mosse di un millimetro. Lunghi minuti in cui sarebbe potuta cadere a terra senza forze, chiudere gli occhi e perdere conoscenza. Invece il desiderio inconscio di vedere sorgere il sole, la mantenne vigile. Ormai nella leggera foschia mattutina, all’orizzonte apparvero i lineamenti delle montagne. Cristina appoggiò la fronte al vetro, le lacrime rigarono le guance fin sotto la gola e poi giù lungo il collo, fino ad infilarsi nella maglietta del pigiama ed inumidirne il tessuto.
Il sabato mattina Gigi accompagnò la mamma in ospedale “vai prima tu, tua sorella è qualche giorno che non ti vede” Il regolamento della sezione sterile prevedeva non più di un visitatore per volta in compagnia dei malati. Una volta infilato tutto il vestiario del caso, Gigi si introdusse timoroso nella stanza. Entrando vide la povera sorella raggomitolata nel letto. Cristina si era assopita, crollata dopo il travaglio notturno. Di lei non rimaneva che un corpicino striminzito e un volto sformato e tumefatto. Gigi si sentì precipitare un macigno nello stomaco. Quello di fronte a lui era ormai il cadavere della sorella, divorata dalla malattia e dalle chemio. Cristina era diventata irriconoscibile ai suoi occhi, anche solo dopo una settimana dall’ultima sua visita “ Dio adesso se esisti dimmi perché…ma l’hai vista mia sorella? Come può una ragazza così buona e piena di vita, meritarsi tutto questo? Me lo vuoi spiegare? Ma che dio sei se non provi nemmeno un briciolo di compassione?” In piedi in fondo alla stanza, strinse i pugni dalla rabbia e trattenne a stento la commozione. Poi si fece coraggio e avanzò silenziosamente fino ad adagiarsi su una poltrona. Rimase così per molti minuti, osservando la testolina nuda della sorella che sbucava dalle coperte. Fuori era di nuovo una bella giornata luminosa di Settembre. Ad un certo punto Cristina si rigirò a fatica nel letto. Poi aprì gli occhi e vide il fratello vegliare su di lei. Lo ricompensò con un enorme sorriso molto più eloquente di mille parole. Gigi sorpreso non seppe dire altro che: “ciao sorellona”. A mezzogiorno entrò la mamma ad imboccare Cristina. Nel piatto c’era un semolino con un po’ di prosciutto cotto sminuzzato, una di quelle pappette che si danno ai neonati nel periodo di svezzamento. Cristina aprì la bocca come un uccellino in attesa che la mamma ci infilasse qualcosa di nutriente. Deglutì a fatica, sforzandosi di vincere il dolore provocato dalle piaghe e l’occlusione di faringe ed esofago. Proseguì docilmente ad occhi chiusi, aprendo e chiudendo la bocca ad intervalli regolari. Finché la mamma vide uscire delle lacrime da quelle fessure e Cristina allungò una mano verso il piatto per prendersi una pausa: “mami lo sappiamo tutte e due che io potrei non farcela, potrei mancare a questo mondo da un giorno all’altro e nessuno se ne accorgerebbe” “ma no Crissy, non devi…” Cristina di nuovo allungò le sue mani per afferrare quelle della mamma “aspetta mami, ascoltami, non è questo che voglio dire…” poi riprese “…quello che voglio dire è che non importa se vivrò ancora un giorno, una settimana o un anno…quello che importa è l’amore che avrò dato e quello che avrò ricevuto. L’amore non muore mai, è fonte di vita eterna”. Mamma Stefania si commosse, orgogliosa della grandezza d’animo della figlia. Appoggiò il piatto e le fece una carezza trattenendo la mano sulla guancia per trasmetterle tutto il suo calore. Poi Cristina aggiunse: “senza amore non valiamo nulla, siamo solo anime perse…mi manca Alessio, mi manca quello che c’è stato tra di noi. Mami io l’ho amato e forse non me ne sono mai resa conto, pensavo di farcela da sola e invece non è così…perché la nostra vita diventa straordinaria solo se la condividiamo con chi ci ama.”
La Dottoressa Ricci visitò Cristina quotidianamente anche due volte al giorno. però durante i restanti giorni di chemioterapia, la ragazza non fu più in grado di alzarsi dal letto. Divenne quasi anemica, le vennero praticate alcune trasfusioni di sangue per evitare il peggio. Le infermiere la tenevano continuamente monitorata, la disinfettavano, le cambiavano il pannolone che le avevano messo a causa degli improvvisi attacchi di diarrea, come fosse una neonata o una cavia da laboratorio. In alcuni momenti del giorno e della notte, fu preda di allucinazioni causate dall’estrema debolezza e dalla febbre costante: si lamentava, straparlava e poi sfinita si assopiva rintanata sotto le coperte. Mamma Stefania tornava a casa in treno distrutta, dicendo a Gigi che ogni giorno avrebbe potuto essere l’ultimo. D’altronde quella condizione estrema di sopravvivenza era già stata messa in conto dai medici.
Quello stesso sabato mattina, la Betta si lanciò all’inseguimento di Alessio. Lo vide passare lungo la provinciale che attraversava il paese, probabilmente di ritorno dal lavoro. Sentì che doveva fermarlo. Quando si mise alla guida, Alessio scomparve dietro a due curve consecutive ma lei non si diede per vinta perché dopo un ponte che scavalcava un torrente, ci sarebbe stato un tratto rettilineo. Ed è proprio in quel punto che la ragazza riuscì a raggiungerlo. Alessio procedeva ad andatura piuttosto moderata, dopo il lavoro guidava senza fretta. Nel momento in cui si accorse degli abbaglianti spianati dietro di sé, pensò ad uno scherzo di qualche amico. Poi vide che alla guida c’era una ragazza, riconobbe la Betta e intuì di cosa si trattasse. Ma soprattutto di chi. “ Ciao, scusami ma lo sapevi che Cristina è tornata a casa?” “ No sinceramente me lo stai dicendo tu adesso…come sta??” “ecco appunto…ma tu non sai proprio niente??” “niente non so niente, sono nove mesi che non ho più notizie di Cristina…” Alla fine Alessio aveva imparato in qualche modo a convivere con la sua mancanza. Si era arreso di fronte alla sua voglia di libertà e indipendenza. Però quel dolore che gli aveva straziato l’anima, era ancora in fondo al suo cuore. Cristina se n’era andata ormai da quattordici- quindici mesi, aveva perso il conto. Lui aveva passato un brutto periodo, era caduto in depressione, aveva fatto una vita disordinata, si era trascurato, era ingrassato. Perfino con gli amici non era più lo stesso. Ma nonostante tutto la sua vita continuava.
“Allora come sta?? Perché mi hai fermato in questo modo?” la Betta non sapeva bene come dirglielo “ Cristina è tornata in Italia per curarsi” “per curarsi da cosa? Spiegati meglio per piacere” “ ha un Linfoma, un tumore del sangue che nei casi più gravi si espande anche ad altri organi del corpo…e il suo caso è uno di quelli gravi…mi spiace”. Alessio rimase impietrito, quelle parole al primo momento gli parvero irreali, poi però si accorse che era tutto vero, che Betta era sincera. Allora con un nodo in gola le chiese: “e adesso dove si trova?” “è a Parma, sta facendo una chemioterapia molto pesante, aveva già iniziato a curarsi a New York ma la malattia purtroppo si è rivelata particolarmente resistente…ora sta molto male Alessio, mi dispiace”. Quelle parole della Betta suonarono come se qualcuno avesse strappato nuovamente Cristina al suo affetto, come se un gruppo terroristico l’avesse rapita e minacciasse di ucciderla. Poi Betta si sentì in dovere di descrivere le drammatiche condizioni dell’amica. Le parve giusto così, Alessio avrebbe dovuto sapere tutto “l’ultima volta che l’ho vista è stata una settimana fa, giusto il giorno dopo la prima chemio. Già allora non stava per niente bene. Adesso lei non somiglia neanche lontanamente a quella che ci ricordavamo, è ridotta a uno scheletro con la faccia gonfia di cortisone e la testa pelata. Ha delle reazioni cutanee su tutto il corpo, prurito, febbre, respira a fatica…persino la sua voce non è più la stessa…la nostra Cristina non si merita tutto questo” Betta non riuscì a trattenere la commozione, gli occhi le si riempirono di lacrime “scusami Alessio, scusa, scusa…” Alessio fu sconvolto, distrutto, riuscì a malapena a trattenere il pianto. Poi però disse: “io la devo vedere, devo andare da lei” “sì certo, ti capisco…ma non so se i medici te lo permetteranno. E’ ricoverata in isolamento in camera sterile”.
Alessio non volle perdere tempo, tornò in macchina e si diresse verso casa di Cristina. Gli parve fosse passata un’eternità da quando faceva quella strada per andare a prenderla e uscire con lei. Si sentì travolto da mille pensieri ma soprattutto avrebbe voluto gridare a squarciagola tutta la sua disperazione. Poi in un tratto di bosco in salita lo scosse un brivido lungo la schiena. Quante volte aveva percorso quella strada in mezzo al nulla per raggiungere la sua bella?…non c’erano stanchezza, né pioggia né neve che potessero fermarlo. Quando giungeva in quella foresta sperduta lungo il crinale della montagna, la sua macchina volava e il suo cuore era colmo di gioia. Di lì a poco avrebbe incontrato la sua Cristina. Ma adesso no, adesso Cristina era ricoverata nel grande ospedale di città e combatteva una lotta impari contro una malattia mostruosa. Alessio abbassò il finestrino, la sua macchina sbandò e con gli occhi colmi di lacrime lanciò un grido disperato: “Cristinaaaa nooooooo!!!!!”
Al citofono rispose la voce monotonale di Gigi “chi è?” “sono Alessio” “ah Alessio…” i due ragazzi in realtà non si conoscevano affatto, tranne che per quella volta ad una festa di paese in cui Cristina presentò Alessio al fratello “ho appena saputo di Cristina…come sta?” Gigi con lo sguardo basso e la voce incerta rispose: “è ridotta a uno straccio…non so, la chemioterapia le sta facendo più male che bene…però la dottoressa che l’ha in cura dice che il suo fisico prima o poi dovrebbe rispondere…” Alessio non capiva, avrebbe voluto correre immediatamente all’ospedale e verificare di persona “dovrebbe rispondere? Che significa??” “praticamente la chemioterapia distrugge il tumore ma allo stesso tempo distrugge anche le cellule del sangue e tutte le difese immunitarie” non era facile per Gigi dover spiegare il calvario della sorella, provava un peso insostenibile “guarda è tremendo vederla così, tremendo…se supera la fase critica della chemio, poi il suo corpo dovrebbe reagire, speriamo…” Sulla soglia della porta, uno di fronte all’altro, i due ragazzi rimasero senza parole, assaliti dalla sconforto. Alessio interruppe il silenzio dicendo: “ Anche se non posso vederla, se non vi dispiace vorrei accompagnarvi comunque in ospedale…scusami non ce la faccio a rimanere a casa sapendo che lei è in quelle condizioni” ci furono di nuovo alcuni secondi di silenzio, lo sguardo dei due ragazzi atterrito da angoscia e dispiacere, poi Alessio aggiunse un’altra considerazione “ ok, senti…io non vorrei esservi di peso e peggiorare la situazione” si prese un’altra pausa “…è solo che darei la mia vita per Cristina”.
Gigi quella sera avrebbe riferito tutto alla mamma parlandogli di Alessio. Invece Alessio se ne tornò a casa col cuore in gola. Il volto di Cristina ogni tanto gli appariva in sogno e ogni volta al risveglio ad Alessio rimaneva addosso un senso d’angoscia indefinito. Quando il volto di Cristina gli appariva nel pieno della notte, allora si destava all’improvviso di soprassalto realizzando l’istante immediatamente successivo quanto quella visione fosse effimera e lontana dalla realtà. A quel punto però il sonno era irrimediabilmente spezzato e lui non avrebbe più ripreso a dormire. Ma nemmeno nel peggior incubo, avrebbe mai potuto immaginare Cristina malata. Nella sua mente rimaneva il volto più sorridente e dolce che esistesse al mondo.
Quando alla sera Gigi parlò di Alessio alla mamma, la signora Stefania non ebbe nessuna esitazione “ma certo che verrà con noi”. Se Gigi aveva incontrato solo una volta Alessio, mamma Stefania invece non lo aveva mai conosciuto. Naturalmente la figlia gliene aveva parlato in maniera assolutamente positiva però senza mai dare grande peso alla loro relazione. Non voleva caricare di troppe aspettative quella che era una storia intima che solo il tempo avrebbe saputo misurare.
Quando la mattina seguente il ragazzo le porse la mano, la signora commossa lo strinse a sé in un abbraccio. Quei secondi furono per entrambi molto intensi, poi quando sciolsero le loro braccia, la signora lo trattenne ancora di fronte a sé, occhi negli occhi. Avrebbe voluto intuire ogni singolo pensiero di quel ragazzo che ne era convinta, amava sua figlia incondizionatamente.
“Solo una persona” l’infermiera li informò che viste le condizioni di Cristina, quel giorno la Dottoressa Ricci aveva disposto la visita di un unico parente “ Cristina ha una brutta infezione polmonare, inoltre i suoi valori del sangue sono molto bassi. Le stiamo somministrando antibiotici e poi procederemo con una trasfusione” “vai mamma” disse Gigi al quale si accodò Alessio con un cenno del capo”. La signora sapeva che sarebbe toccato a lei portare quel minimo di conforto possibile alla figlia. Così registrò il proprio nome al tavolo dell’accettazione e si diresse senza esitazioni verso la porta d’ingresso del reparto. Seguì il percorso dei visitatori che prevedeva la vestizione nello spogliatoio a loro dedicato. Indossò tutto l’occorrente compresa cuffia e mascherina. In ingresso alla zona sterile c’era un’altra infermiera che la attendeva. Appena le aprì la porta della stanza, la mamma vide la figlia presa da un conato di vomito, sbavare riversa sopra il letto sfatto. Tenendosi appoggiata sui gomiti, a qualche centimetro dal materasso, vomitò un liquido marroncino, verdastro lì sopra le lenzuola. Poi tutta tremante allontanò appena il risultato di quella scena e si raggomitolò su se stessa nella porzione di letto ancora pulita. Nel giro di un paio di minuti accorsero subito due infermiere con una barella sulla quale adagiarono Cristina e rifecero il letto in men che non di dica. Solo in quel momento la ragazza si accorse della presenza della madre. Allora con un filo di voce, le disse: “mami va sempre peggio ma io ce la sto mettendo tutta, giuro…” La mamma la accarezzò dolcemente e le disse: “certo Crissy lo so…è colpa della chemio…adesso ci sono qua io con te, riposati un poco…” la mamma le rimboccò le coperte, Cristina socchiuse gli occhi, rincuorata dalla sua presenza. Si abbandonò ad un sonno leggero sotto la spessa coltre di coperte e lenzuola. La mamma vegliò su di lei senza perderla d’occhio nemmeno un istante. Il respiro affannoso della ragazza venne interrotto più volte da colpi di tosse, la sentì sussurrare nel sonno parole confuse…poi di nuovo dei colpi di tosse improvvisi la fecero sussultare nel letto, la tregua durò poco. Si ridestò con un prolungato lamento di dolore, un pianto senza più lacrime, frutto del continuo tormento fisico che annientava qualsiasi pensiero, trascinandola in uno strazio senza fine. Poi con una voce quasi irriconoscibile all’orecchio della madre, le disse:” mami mi brucia tutto, non sento più la lingua…” allungò la mano sul comodino dove era riposta una ciotola d’acciaio, cercò d’ afferrarla maldestramente ma le cadde a terra. Mamma Stefania allora aggirò immediatamente il letto, raccolse la ciotola e la porse alla figlia. Cristina sputò a fatica un impasto denso di saliva e sangue, poi lasciò cadere di nuovo la testa sul cuscino. Rimase immobile con gli occhi socchiusi per alcuni minuti. Il suo respiro si fece quasi inesistente, la mamma la fissava senza parole, osservando gli impercettibili movimenti del suo diaframma sotto lo spesso strato di coperte. Cristina restò a lungo immobile con lo sguardo rivolto al soffitto, perso nel nulla. Mamma Stefania lasciò la poltrona e addossata al letto, si curvò verso l’orecchio della figlia e le disse:” fuori in sala d’aspetto c’è tuo fratello…e c’è anche Alessio” in quell’istante Cristina contrasse i lineamenti del viso e ruotò gli occhi di lato “ sì hai capito bene, c’è anche Alessio, quando ha saputo che eri in ospedale ha voluto venire subito” La mamma allora vide gli occhi della figlia luccicare e poi riempirsi di lacrime. Allora Cristina mosse leggermente la sua povera testolina in direzione della madre e con voce tremante le disse “ma qui non c’è rimasta nessuna Cristina…mi dispiace mamma, mi dispiace tantissimo…diglielo”.
Fuori nella sala d’aspetto i due ragazzi non erano riusciti a stare fermi nemmeno un minuto, andavano avanti e indietro lungo il corridoio d’accesso alternandosi a vicenda. Quando per un istante si ritrovarono seduti uno fianco all’altro Gigi disse: “certo che tu non te la sei mai scordata mia sorella…” “non avrei mai potuto…anche tu lei vuoi molto bene” “certo ma in maniera differente. Quando mio padre ci ha abbandonato e mia madre era al lavoro, lei si prendeva cura di me…mi sopportava, mi ascoltava. E’ la sorella migliore che potessi avere” ci fu una pausa di silenzio fra i due, poi Alessio riprese “invece per me è un pezzo del mio cuore. Quando è partita per l’America io mi sono perduto…” “ sai vorrei provare per una ragazza quello che provi tu”. A quelle parole Alessio non rispose nulla. Sapeva solo che il fatto di provare un sentimento così forte per la persona amata, lo rendeva più sensibile e vulnerabile. Ma non poteva pretendere nulla da Cristina, tranne la sua felicità. Invece avrebbe voluto essere al suo posto in quel letto d’ospedale. Di questo ne era sicuro. Poi a Gigi venne un’idea: “ se ti va forse la puoi vedere da fuori…all’interno della zona sterile c’è una specie di sala d’aspetto dove passa il personale medico e dove possono sostare per alcuni minuti i malati in compagnia dei loro cari…” “certo magari” rispose Alessio “ok allora fammi provare” Gigi si piazzò di fronte alla porta d’ingresso del reparto e suonò il campanello. Uscì la stessa infermiera che li aveva accolti e Alessio li vide parlare animatamente. L’infermiera scosse più volte la testa e alla fine rientrò dentro. Gigi però se ne restò là in piedi in attesa. Sorprendentemente dopo un paio di minuti l’infermiera riapparve di nuovo “ok può sostare nella sala comune per cinque minuti…venga che le mostro la procedura d’accesso” Alessio si alzò prontamente dalla seggiola e la seguì. La sala comune in realtà non era altro che un ampio corridoio d’accesso alle camere, in un angolo del quale era ricavata una piccola area di sosta con un tavolino circondato da tre divanetti. In quell’ambiente asettico regnava un silenzio assoluto, interrotto dal solo passaggio del personale medico. L’infermiera indicò la camera di Cristina e gli disse: “ se vuole può guardare attraverso la finestrella della porta. Però mi raccomando, abbia cura di non farsi vedere dalla paziente. Non vogliamo che subisca nessuno stress emotivo” “ va bene” disse Alessio assecondando le parole della donna. Si avvicinò lentamente alla porta fermandosi ad un metro di distanza. Da lì si sforzò di guardare attraverso la finestrella posizionata ad altezza uomo. E vide la testa nuda di Cristina spuntare dal letto e sua mamma che ricurva sopra di lei, le accarezzava la fronte. Cercò di mettere a fuoco i loro volti, se ne stette lì per un minuto o due immobile. Da lontano vide il volto sofferente di Cristina, quasi irriconoscibile, senza capelli e con quelle tremende occhiaie stampate in uno sguardo perso nel nulla. Alessio che si era perso nella luce dei suoi occhi mille volte, ora scorgeva solo vuoto e disperazione…e scoppiò a piangere come un bambino. Si rintanò nell’angolo su un divanetto con la testa china tra le mani, piangendo e singhiozzando.
Quella domenica la mamma prima di lasciare la stanza della figlia, le diede un bacio leggero sulla fronte, poi scostandosi appena le disse:” gli manchi tanto…io lo so, lui non ti ha mai dimenticato neanche per un minuto”.
Ogni volta che la signora Stefania usciva da quella stanza si sentiva sfinita ma quel giorno si fece forza perché con lei c’erano anche i ragazzi. Quando fu di nuovo da loro gli disse “ oggi era davvero senza forze…è il momento più difficile ma non dobbiamo perdere la speranza”.
Era ormai tardo pomeriggio e i tre si rimisero in viaggio sulla strada di ritorno verso la valle. In macchina il silenzio tra loro fu quanto mai eloquente, ognuno assorto nel personale stato d’angoscia per le condizioni di Cristina. Nella testa di ognuno scorsero immagini differenti, ricordi di momenti felici passati insieme alla loro Cristina stridevano violentemente con le immagini dei giorni presenti, sconvolti dalla brutalità della malattia.
Cristina trascorse i restanti giorni di chemioterapia in uno stato vegetativo, stabilizzata da quotidiane trasfusioni e sotto costante somministrazione di antibiotici. Alessio passò il travaglio di quei giorni col pensiero fisso per lei, pregando che restasse aggrappata alla vita. Minuto dopo minuto. Al lavoro divenne una specie d’automa, la sua testa ovviamente era altrove. Al termine della giornata non poté fare a meno di correre a casa di Cristina e chiedere notizie di lei a chi tra il fratello o la mamma si presentava alla porta.
Finalmente i cicli intensivi di chemio terminarono. Cristina quasi non se ne accorse, tale era ormai il suo stato d’incoscienza. Però per la prima volta ormai da tempo immemore, riuscì a passare una notte tranquilla. La mattina seguente la Dottoressa Ricci si presentò puntualmente nella sua stanza “Cristina sei stata brava, hai superato la fase più critica. Ma non penserai di fermarti qui, vero? Abbiamo ancora molte cose da fare io e te…” La mattina stessa varcò finalmente la porta della camera d’isolamento su una barella. Due infermiere la condussero in Medicina Nucleare dove venne sottoposta alla Pet di controllo. Nel pomeriggio la Ricci ritornò a farle visita. Questa volta le si leggeva in volto un’inconsueta espressione di compiacimento “ oltre il novanta per cento Cristina, oltre novanta per cento. La marcatura del radiofarmaco ci indica una remissione della malattia molto soddisfacente”. Cristina debolissima e ancora dolorante apprese quelle parole con apparente distacco ma dentro di sé sentì nascere di nuovo un barlume di speranza “domattina ti faremo una tomografia di centratura in preparazione della radioterapia di condizionamento che durerà due o tre settimane, a seconda di come risponderà il tuo fisico” la dottoressa sentì che quello era il momento di comunicare il massimo della positività alla ragazza “ cara Cristina anche se ti aspettano ancora delle giornate difficili, devi essere fiduciosa. Ormai il tuo corpo e la tua mente si sono allenati a resistere e anche se non te ne rendi bene conto, adesso la strada da percorrere è molto meno accidentata. Sii fiduciosa e orgogliosa di te stessa”.
Dopo giorni d’angoscia infinita quando la dottoressa comunicò l’esito positivo alla mamma, la signora Stefania pensò che fosse una specie di miracolo. Quel sogno tanto sperato che aveva cullato a lungo dentro di sé, forse ora poteva vedere la luce. Come un soldato al termine di una sanguinosa battaglia, Cristina tornò di nuovo a viaggiare in barella per le corsie d’ospedale, esausta ma viva. “Speranza” era una parola che ancora non poteva pronunciare ma durante i lunghi mesi di malattia in cui era entrata e uscita senza sosta dal tunnel del dolore, ora quel verbo ritornò ad abitare il suo inconscio.
Il mattino seguente si ritrovò di nuovo distesa sotto la volta del Tomografo Computerizzato. Venne immobilizzata con dei cuscinetti sagomati posizionati sotto la nuca, il bacino e le ginocchia. Poi una serie di bande elastiche in tensione le impedirono qualsiasi possibilità di movimento dal fondoschiena alle spalle. Infine le venne applicata una maschera elastica microforata sul viso, anch’essa tesa al massimo per impedire qualsiasi movimento tranne il respiro limitato alle sole narici. Avvertì il leggero ronzio del fascio laser che le ruotò attorno al collo poi tracciò infiniti movimenti tra stomaco e polmoni. Non sentì nulla tranne il movimento cadenzato del macchinario. Poi venne ricondotta in camera. Anche se i suoi valori del sangue la rendevano ancora estremamente debole, il solo fatto di non dover più subire i devastanti effetti collaterali della chemio, le diede la possibilità di recuperare un minimo di energie. Quella sera dalla finestra della sua camera, la vista del tramonto all’orizzonte fu uno spettacolo che le scaldò il cuore: fu uno di quei tramonti in cui la linea dell’Appennino all’orizzonte si immerge in una foschia dal colore rosso pastello. Allora il desiderio di ritornare a camminare lungo i sentieri della sua valle, le sembrò la promessa di un nuovo inizio.
La mattina seguente, la Dottoressa Ricci le fece visita come al solito per appurare il suo stato di salute “allora come si sente la nostra guerriera?” quelle parole pronunciate con tono ironico echeggiarono nella stanza con tutta la forza del loro messaggio. In quel momento Cristina si ricordò di ciò che le aveva profetizzato il Dotttor Leonard e realizzò quanto fosse vero “ sono qui ancora a combattere la mia battaglia… ce la voglio fare”. Quella mattina l’infermiera che accompagnava la Ricci, sospingeva una sedia a rotelle che avrebbe portato Cristina in Radioterapia verso quella che tutti si auguravano fosse l’ultima tappa del viaggio, l’ultimo pendio da superare prima della vetta, prima del traguardo. All’ingresso del reparto, incrociarono un ragazzetto sulla sedia a rotelle, accompagnato da un’altra infermiera. Quella faccia in qualche modo le era familiare ma dovette pensarci qualche secondo per ricondurla ad una ragione precisa…poi visualizzò l’immagine che chiarì tutto: ma certo, quel ragazzetto era in compagnia di Antonio quel giorno che s’incontrarono fuori dall’ambulatorio. “mi scusi, mi scusi infermiera…torniamo un attimo indietro devo parlare con quel ragazzo…per piacere” la donna un po’ seccata girò controvoglia la sedia a rotelle e chiamò la collega che si arrestò giusto davanti all’uscita del reparto. “Ciao io mi chiamo Cristina, ci siamo visti una volta nella sala d’aspetto di Ematologia…tu eri vicino ad Antonio, quel ragazzo calabrese…ti ricordi??” pallido e smagrito, visto da vicino quel ragazzetto sembrava quasi un bambino “certo che mi ricordo di Antonio…purtroppo non ce l’ha fatta” a quelle parole vide il volto di Cristina contrarsi in una smorfia di dolore “scusami, dispiace tantissimo anche a me, Antonio era uno di noi” Cristina rimase senza parole, si portò la mano alla bocca per trattenere un urlo straziato che aveva dentro. Poi si portò la mano sugli occhi, chinò la testa e si rinchiuse a guscio nel dolore infinito, di nuovo in fondo all’abisso. Un altro amico vero , dall’animo puro e dal cuore d’oro se n’era andato, schiacciato da un male oscuro senza pietà. Perchèeee…perché prorio lui. Antonio come Melany, due amici dall’animo buono e sensibile, due esseri umani che esprimevano gentilezza ed amore ad ogni loro sguardo. Due esseri umani che avevano arricchito di gioia e bontà le vite di chi gli era stato accanto. Due persone di cui il mondo aveva ancora tremendamente bisogno. Un fratello e una sorella che le avevano spalancato il loro cuore senza riserve, con semplicità ed affetto. Aveva vinto ancora il male proprio nel momento in cui lei avrebbe voluto stringerli a sé in un abbraccio senza fine. Quella mattina cadde nella disperazione più nera. L’infermiera tentò inutilmente di consolarla, le posò una mano sulla spalla e le disse “forza Cristina, fatti coraggio, devi andare avanti anche per il tuo amico”.
Non era certo quello il modo migliore per cominciare una terapia che anche se meno invasiva della chemio, avrebbe comunque comportato uno stress psico-fisico non indifferente. Con la morte nel cuore Cristina venne introdotta nell’ambulatorio dove l’attendeva il radioterapista. Il giovane dottore appreso lo stato di sconforto che aveva assalito la sua paziente, le disse: “Cristina devi sapere che la radioterapia, così come le altre cure invasive a cui ti sei già sottoposta, per apportare un effettivo beneficio, necessita di una componente psicologica fondamentale. La consapevolezza dell’interessato. Ma tu queste cose le sai già…io ho solo bisogno della tua collaborazione. Il nostro obiettivo è quello di farti stare bene, non solo per te stessa ma per tutte le persone che ti sono care”. Seppure distrutta e col cuore a pezzi Cristina annuì. Così senza opporre resistenza, si lasciò manipolare dalle infermiere che la immobilizzarono dalla testa al bacino sopra il piano scorrevole del macchinario. Le sue palpebre furono quasi totalmente serrate sotto la forza di trazione della maschera elastica, così come la bocca. Poi sentì il piano scorrevole muoversi in avanti e sollevarsi, le infermiere si allontanarono e chiusero la porta del bunker. A quel punto l’acceleratore lineare cominciò a muoversi attorno al suo corpo. Il trattamento durò solo una manciata di minuti. Una maschera apparentemente priva di vita, immobile in un ambiente asettico all’interno del quale si muoveva la testa robotizzata di un macchinario sofisticato. Eppure quella maschera piangeva.
La sera cominciarono a presentarsi i primi effetti collaterali, gola secca e infiammata, arrossamenti alla pelle in diversi punti del corpo e anche una leggera nausea. Ma Cristina non gli diede grande importanza. Invece prima di stendersi di nuovo nel letto andò in bagno a guardarsi allo specchio dopo che non lo aveva fatto ormai da due settimane; quella figura di donna che vide riflessa lì dentro fu come una di quelle foto in bianco e nero che ritraevano i sopravvissuti ai campi di concentramento: il suo volto privo d’espressione era tumefatto, scarnificato come il resto del corpo, svuotato fin nel profondo dell’anima. Sì sentì come una sopravvissuta, sola e senza una direzione precisa dove andare.
La radioterapia proseguì senza grossi traumi. Come le aveva detto la Ricci, ormai il suo organismo si era abituato a quel tipo di stress psico-fisico. Certo dovette convivere per l’ennesima volta con debolezza, nausea ed eritemi alla pelle. Ma nel complesso i disturbi furono molto più sostenibili rispetto all’abisso di dolore che aveva dovuto superare in precedenza. I suoi giorni trascorsero ancora per la maggioranza del tempo all’interno delle quattro mura della sua camera sterile. La reazione fisica di Cristina alla terapia era senz’altro incoraggiante ma le sue perduranti condizioni di debolezza, suggerirono ai dottori di tenerla ancora all’interno di un ambiente protetto.
“Mamma voglio rivedere Alessio, lo sento…è arrivato il momento”. La signora Stefania fu felice di ascoltare quelle parole. Le afferrò le mani e la guardò negli occhi “ certo Crissy, questa sera glielo dirò subito”. Durante quei giorni di angoscia, Alessio era rimasto quotidianamente in contatto con loro, soffrendo e sperando che Cristina ce la facesse.
Quel giorno Alessio e la mamma arrivarono in reparto anche prima del solito “questa volta vai prima tu” le disse la signora “oggi lei aspetta te” poi con fare materno gli sfiorò il viso con una carezza appena accennata “mi raccomando, fatti coraggio e falle coraggio…c’è ancora un pezzo di strada da fare”. Neanche a dirlo, Alessio rimase senza fiato col cuore in gola “sì certo, ce la metterò tutta”. Poi senza aspettare un istante in più, segnò il suo nome sul registro dei visitatori e si infilò oltre la porta della zona sterile. Nello spogliatoio si cambiò alla velocità della luce, senza accorgersi che i pantaloni sterili andavano indossati per il verso giusto, infilando la cuffia tutta storta in testa. Poi attraversò di nuovo quel corridoio ai limiti del quale si era dovuto arrestare la prima volta. Di fronte alla porta della camera, l’infermiera che stava dietro di lui notò la sua esitazione. La donna gli sistemò la cuffia in testa con due tocchi rapidi poi passò il badge davanti alla serratura elettronica e gli disse: “non aver paura, puoi entrare” Alessio infine allungò la sua mano verso la maniglia.
Quando varcò la soglia, Cristina era seduta sul letto girata di profilo. Appena vide la porta aprirsi si voltò in quella direzione. E vide Alessio “ciao” poi accennò un sorriso goffo. Alessio invece al primo istante non riuscì a spiaccicare nemmeno una parola, poi con voce malferma le disse “ciao, come va?” Cristina rimase subito intenerita dal suo pudore “beh va come mi vedi” poi si portò subito la mano alla bocca per fermare la commozione che si stava impadronendo del suo viso. Riprese con voce tremante e gli disse: “dai vieni qua, non stare lì impalato…” Alessio impacciato nei movimenti dal vestiario supplementare, si avvicinò goffamente al letto. Cristina gli prese la mano e guardandolo negli occhi gli disse “siediti qui”. Ci fu una pausa di qualche secondo, i due ragazzi ora erano uno di fronte all’altro. Lei continuò a guardarlo dritto negli occhi, poi scoppiò a piangere e con la voce alterata dal gemito gli disse “allora dove eravamo rimasti?” tremava, le lacrime le scesero abbondanti, rigando dolcemente il suo povero viso. Alessio le prese una mano tra le sue e la baciò…e poi scoppiò a piangere “ non lo so dove eravamo rimasti…non lo so…so solo che con te rifarei tutto in questa e in un’alta vita” poi di nuovo in preda alla commozione le disse “mi sei mancata da morire…” “lo so, lo so” e ancora interrotto dal pianto “ ti avevo perduta e alla fine mi sono perduto anch’io…sono uno stupido, un povero cretino…” quelle ultime parole strapparono un sorriso malinconico alla ragazza “guardami…qua se c’è una povera cretina, quella sono io…ti ho fatto soffrire mi dispiace, mi dispiace tantissimo”. Alessio udita quell’affermazione ebbe un sussulto. D’impulso infilò le sue dita tra quelle di Cristina, creando un intreccio tra le loro mani e stringendole dolcemente “non ti devi dispiacere di nulla, io l’ho sempre saputo che non avevo nessun diritto di privarti della tua libertà”. Con gli occhi ancora umidi e senza sciogliere il legame tra loro, Cristina si allungò verso Alessio e gli diede un bacio sulla guancia. Fu un gesto tenero e bellissimo che fece correre un brivido lungo la schiena di lui. Appena Cristina si ritrasse gli disse: “sai, volevo sfruttare al massimo l’occasione della mia vita, però non mi sono accorta che stavo perdendo il senso delle cose…e poi è arrivata la malattia che ha sconvolto la mia esistenza” si prese una pausa e poi aggiunse “tutto questo dolore però mi ha fatto riflettere, mi ha reso una persona più consapevole”. Alessio osservava quella nuova Cristina di fronte a sé. Nonostante tutto, quella tremenda malattia non era riuscita a spegnere la luce dei suoi stupendi occhi verdi. Di fronte a sé ora c’era una creatura gracile, indifesa, provata dalla fatica; ma attraverso quegli occhi Alessio rivide di nuovo la sua anima più sensibile, colma d’amore per la vita e per il prossimo. La avvolse in un tenero abbraccio per proteggerla, per preservare il respiro di quel corpicino esile. Poi in quell’atmosfera sospesa prese a darle dei baci delicati sulla testolina coperta da una leggerissima peluria “quello che mi spezza il cuore è che avrei voluto esserti vicino nei momenti di solitudine e paura…” Cristina si svincolò dolcemente, cinse le sue braccia attorno al collo di Alessio e gli diede un bacio soffice sulle labbra. Poi cingendo con le sue mani il collo di lui, fissò il suo sguardo dentro ai suoi occhi…e per un istante lo baciò di nuovo, con un bacio morbido e pieno. Fu un momento magico in cui Alessio avvertì dopo lungo tempo quella gioia del cuore così unica, da non poter essere descritta a parole. Purtroppo l’istante successivo Cristina dovette spiegargli che anche dei baci innocui per lei avrebbero potuto costituire fonte di contaminazione batterica. Alessio comprese perfettamente la delicatezza imposta dalle circostanze “ io sono già strafelice così, averti potuto parlare e vederti stare meglio per me è ciò che conta più d’ogni cosa”. All’improvviso Cristina fu presa di nuovo dalla malinconia “ma io non voglio farti pena perché sono in queste condizioni…” “ma non mi fai pena…la Cristina che vedo davanti a me è un essere umano straordinario”. Rimasero per dei lunghi minuti uno di fronte all’altra senza dirsi una parola scambiandosi carezze, sorrisi ed abbracci.
Nei giorni successivi Cristina proseguì la radioterapia subendo solo in minima parte gli effetti collaterali annessi. Aver riallacciato il rapporto con Alessio le aveva dato un’importante carica emotiva che aveva reso il suo organismo più reattivo. Dopo due settimane di cura, anche la minima traccia di tumore era scomparsa nel nulla. Al termine dell’ennesima Pet la Dottoressa Ricci le disse: “Cristina puoi considerarti clinicamente guarita, ora si tratta solo di ristabilire i tuoi normali valori del sangue attraverso la re-infusione delle tue cellule staminali che avevamo conservato. Ritornerai in forze presto”. Cristina volle subito condividere quella bella notizia con le sue amiche americane. Scrisse a Matilde, Sofia e Kate che non tardarono a felicitarsi con lei. Matilde la chiamò la sera stessa: “sorellina non vedo l’ora di riabbracciarti! Guarda ho già prenotato il volo per le vacanze di Natale, abbiamo tante cose da raccontarci, sarà bellissimo!”. Sofia invece le scrisse che l’aspettava di nuovo a New York e nel frattempo le avrebbe mandato una copia del suo libro intitolato “Il Club degli Angeli”. Kate invece le scrisse un lungo messaggio: “carissima Cristina è una gioia sapere che sei riuscita a vincere la tua personale battaglia con la malattia. Durante il nostro percorso abbiamo avuto la fortuna di condividere tante emozioni contrastanti. Forse è proprio nei momenti più tristi e dolorosi che ci siamo sentite unite da un legame profondo che ha toccato i nostri cuori. Io non ho mai smesso neanche per un minuto di pensare alle mie amiche di avventura, a te, a Sofia e alla nostra povera Melany. Voi siete proprio quegli angeli che sorprendentemente la malattia mi ha regalato. Ora che dopo un difficile percorso siamo riuscite a riprenderci le nostre vite, adesso sappiamo che non saranno mai più come prima. Anzi è ciò che desideriamo più di ogni altra cosa. Ora vogliamo che nelle nostre vite ci sia spazio solo per ciò che conta davvero. Non è così Crissy? Di conseguenza al primo posto delle nostre esistenze non può che esserci l’amore. Un amore sincero sia per chi ci sta vicino, sia per chi incontreremo nel nostro cammino. Senza dimenticarci l’amore per il creato e per la vita intera che si manifesta nelle forme più incredibili. Infine, ti auguro con tutto il cuore di avere al tuo fianco un compagno che sappia condividere con te tutto questo. Un compagno che ti sappia amare oltre le tempeste della vita. Perché le tempeste passano ma l’amore resta.
Tua Kate”
Cristina lasciò l’ospedale verso la fine di Settembre. Quella mattina il cielo sopra Parma era attraversato da passaggi di nuvole bianche che nascondevano il sole per qualche minuto per poi svelarlo di nuovo più luminoso di prima. Cristina aveva scritto ad Alessio che le avrebbe fatto piacere se fosse venuto a prenderla in compagnia della mamma. La signora Stefania non stava più nella pelle dalla felicità: appena vide la figlia la riempì di baci come se non la vedesse da una vita. Alessio invece si premurò di prenderle in custodia il borsone dei suoi effetti personali. All’uscita del reparto la Dottoressa Ricci e le infermiere salutarono calorosamente Cristina come se fosse una di famiglia. Dopo un mese di isolamento finalmente ritornava a respirare all’aria aperta. Nel tragitto verso la macchina restò qualche passo indietro rispetto alla mamma ed Alessio. Poi si fermò un istante, rivolse gli occhi verso il cielo e inspirò quanta più aria possibile. La mamma si accorse subito di quello strano gesto della figlia “tutto bene Crissy?” “sì mami, va tutto benissimo, arrivo”.
Giunti a casa mangiarono tutti e tre insieme. Anche se la mamma avrebbe voluto rimpinzarla, Cristina in quei primi giorni di degenza avrebbe dovuto seguire una dieta leggera. La vera gioia di quel pranzo fu quella di essere seduti attorno alla tavola tutti insieme, poter ridere e parlare come si faceva nei giorni sereni di festa. Un poco più tardi li raggiunse anche Gigi che per quell’occasione tornò a casa di corsa dal lavoro in pausa pranzo. Subito dopo mangiato appena riordinata la tavola, Cristina prese per mano Alessio e gli disse: “vieni con me” “dove vuoi andare?” “…seguimi”. Dall’altra parte della cucina si fece sentire la mamma, dicendo alla figlia “Cristina sei sicura che non ti vuoi riposare?” “no tranquilla mamma, mi riposerò più tardi”. Fecero una lunga camminata, si fermarono più volte perché Cristina non era ancora completamente in forze. Più volte Alessio le chiese se se la sentiva di proseguire. A ridosso delle ultime case del centro sorgeva una fascia boschiva non molto estesa, popolata da querce, carpini e qualche raro faggio. Il sottobosco era un fitto intreccio di arbusti e rami spezzati. Alessio in quel momento capì e di colpo arrestò i suoi passi. Poi voltandosi di fronte a Cristina le posò le sue mani sui fianchi e la guardò ammutolito. Lei fece uno straordinario sorriso innocente e con tutta la dolcezza del mondo le disse: “dai andiamo”. Percorsero il breve sentiero che attraversava il bosco, poco oltre si aprì di fronte ai loro occhi un enorme distesa erbosa disposta sul ripido pendio collinare che sovrastava il paese. Le erbe del campo in quel periodo della stagione non erano così lussureggianti come quel lontano pomeriggio in cui ci andarono verso l’ora del tramonto. Ma la bellezza di quel luogo era ancora intatta. Cristina lo tirò per un braccio e prese a salire ad un ritmo forsennato, tanto che a metà pendio non ce la fece più e si accasciò col fiatone. Alessio la guardò respirare affannosamente, poi Cristina sollevò la testa e gli disse:” sai Ale, l’insegnamento più grande che ho ricevuto in dono dalla mia malattia è stato quello di capire che basta veramente poco per essere felici. Quando stiamo bene non ce ne rendiamo conto e ci affanniamo per cose che non hanno senso. Poi invece se ti succede quello che è successo a me, allora capisci che la felicità si trova in un sorriso sincero o in una gentilezza…” i suoi occhi si fecero lucidi “e poi scopri che tutto quello di cui hai bisogno è lì in mezzo a un campo insieme a quella persona che non ha mai smesso di amarti”.
Dopo qualche giorno il postino consegnò a casa di Cristina un pacco lungo e stretto contenente un tubo in cartone. Cristina ebbe un presentimento e si affrettò subito ad estrarne il contenuto. Si trattava di un cartoncino di grande formato raffigurante un angelo che sopra la bianca veste indossava un’armatura dorata. L’angelo dai capelli lunghi e biondi aveva le sembianze di Cristina. Sul retro erano riportate le seguenti parole: “l’angelo dalla corazza scintillante sorride alla vita…baci Kate”.
Desideri
Io sono una ragazza molto realista, so che il mio avversario è molto forte e che potrei perdere questa battaglia in qualsiasi momento.
Se dovesse succedere voglio dire che mi dispiacerebbe tanto perché vorrei continuare questa vita stupenda , anche se l’uomo sta distruggendo questo magnifico mondo e la natura si sta rivoltando contro di noi, e soprattutto per il dolore che darei alle persone che amo.
Io sarei comunque sempre tra di loro
Greta 25-06-2007