LA GRANDE STORIA DI GIOVANNI

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Guardo la foto bianconero formato gigante appesa al muro. Ritrae Giovanni che a quel tempo avrà avuto meno di trent’anni, fine anni cinquanta. Magro, magrissimo, i pantaloni e la camicia troppo larghi. Quello che mi colpisce subito è lo sguardo fiero e compiaciuto di quel giovanotto accanto ai suoi buoi, in una mano un lungo bastone per governare gli animali e nell’altra le redini per condurli. E’ uno sguardo sincero d’un giovane orgoglioso di quel suo mondo.
Eppure a quel tempo Giovanni aveva già superato alcune prove della vita, tremende e dolorose, e forse per questo ne era uscito più forte e coraggioso.
Sono accanto a lui, osserviamo la foto. Mi dice che quando sua nuora ha voluto continuare con la stalla e le vacche, ha pensato che quell’immagine dovesse essere il simbolo della continuità di quel mondo: “la Gabriella quando ha visto questa foto ha voluto ingrandirla e farci un quadro”.
Giovanni quest’anno ne compirà novanta e come dice lui, è come se avesse vissuto quattro volte.
Mi sono presentato a casa sua con la scusa di comprare due pezzi di Parmigiano ma in realtà era da molto tempo che speravo di sedermi con lui attorno ad un tavolo per ascoltare la straordinaria storia della sua vita. E così è successo. Vedo la sua Panda verde parcheggiata fuori dalla stalla, certo, perché lui a novant’anni guida ancora. E ad un tratto sbuca fuori. “Giovanni eccomi qua, andiamo che mi devi raccontare tutto” e lui “ohimè!” e intanto con quell’esclamazione mi invita in casa.
Ci sediamo a tavola, la moglie mentre prepara il tè ci ascolta con discrezione e lui apre il libro della sua vita. Mi dice che per ben due volte c’erano pronte le carte per emigrare, in Inghilterra ed in Francia ma lui ci sarebbe andato mal volentieri. Aveva un fratello malato e poi c’era da accudire il bestiame tra cui i suoi adorati buoi. E così non emigrò, seguì il consiglio del padre, si prese qualche bestia in più e proseguì con la stalla. Fine anni quaranta, dopoguerra, a quei tempi ci voleva più coraggio a restare piuttosto che partire e Giovanni, il più vecchio di cinque, con le sorelle già emigrate, dentro sé stesso trovò il coraggio per restare perché dopotutto a quella terra bellissima e dura, lui era troppo affezionato.
Con la “mesura” alla mano, così si chiama il falcetto, erano i giorni della mietitura del grano nel Luglio del ’44. Giovanni si divideva tra stalla, pascolo e lavoro nei campi. Arrivarono i soldati tedeschi alla ricerca dei partigiani. “Avevo i tedeschi in casa” mi dice. Detta così, la vicenda fa quasi sorridere. Gli chiedo di spiegarsi meglio, di ricostruire la scena. Ho la sensazione che per quanti sforzi io possa fare, non potrò mai rendermi conto di cosa provasse quel giovincello durante quei giorni tremendi.
“I capi dei tedeschi dormivano nella stanza da letto di mio papà e mia mamma”. Al loro arrivo accompagnati da quelli che Giovanni definisce nel suo italiano colorito “miliziotti”, cioè fascisti, gli uomini del villaggio si danno alla macchia. “Avevamo costruito un nascondiglio con i rami intrecciati e lo avevamo ricoperto di letame, per fortuna che non ci siamo mai entrati. I tedeschi ci avevano piazzato una sentinella proprio lì sopra, ci sarebbe toccato morire lì dentro!”. Il padre di Giovanni con i tedeschi in casa, teme che scoprano le scorte di grano conservate nella cassapanca all’ingresso. Fortunatamente i soldati non ci guardano. Invece di due botti di vino se ne salva una sola: quella di vino rosso nascosta sotto il fieno viene distrutta, resta quella di bianco: “mio papà e suo cugino l’avevano buttata dentro una pozza d’acqua sotto casa, sperando che andasse a fondo, invece quella galleggiava! Eppure alla fine dopo varie peripezie almeno quella si salverà.
Intanto tra le donne del villaggio corre voce che i soldati tedeschi non abbiano intenzioni malvagie contro i civili e così gli uomini ritornano ai Segarati. Ma s’illudono perché proprio allora i nazi-fascisti li contano uno a uno e li “segnano” e così anche il loro destino è segnato. Una mattina radunano tutti gli uomini tranne i più vecchi e li conducono a piedi nel fondo valle dove li aspetta un camion della Wehrmacht che li trasporterà fino a Verona. E’ l’inizio dell’Odissea che condurrà parecchi giovani della valle in un Campo di Prigionia in Germania. Giovanni ha soli diciassette anni.
Non è certo un viaggio in Prima Classe. Qualcuno vorrebbe scappare, fanno una sosta a Rubbiano ma ci sono sentinelle ovunque sebbene i prigionieri non siano né legati né ammanettati. Fa caldo, caldissimo, questi poveri contadini strappati alle loro montagne sono stipati come bestie senza cibo né acqua. “A Verona ci hanno dato un goccio d’acqua e un pezzo di pane, poi ci hanno schiacciato dentro quei vagoni con una finestrella piccolissima che si moriva dal caldo” A mezzogiorno sotto un caldo cocente parte il viaggio di questi poveri ragazzi verso il campo di prigionia in Germania: “c’era una fila di vagoni piena, quaranta per volta schiacciati lì dentro che non si respirava…ci son voluti tre giorni”. Giovanni, senza rendersene conto, stava attraversando i momenti più tragici della moderna storia Europea. Sullo stesso treno ma in vagoni diversi erano stipati centinaia di ebrei italiani che andavano incontro alla morte. Gli chiedo di ricordare le immagini di quei giorni: “siamo arrivati di notte, ci hanno fatto passare là dove c’erano i tedeschi e dietro la cucina c’erano i bidoni dell’immondizia pieni di patate. E tutti noi che passavamo, affondavamo le mani lì dentro e poi subito in bocca, quelle patate andavano giù intere, avevamo una fame bestiale!…poi ci hanno portato fuori in campagna dove c’era tutto bruciato, là c’erano delle baracche”. Gli sventurati contadini della Val Ceno sono arrivati a destinazione: Giovanni racconta di baracche di legno con letti a castello dove ci sono materassi “grami”. Sono in aperta campagna, sconfinata, nulla in vista all’orizzonte, se non altre baracche di prigionieri. Loro, tutto sommato sono prigionieri “privilegiati” hanno maggiore libertà di altri, potrebbero addirittura tentare la fuga ma nessuno si azzarda. A qualche decina di metri c’è una baracca di prigioniere polacche circondata dal filo spinato. Lui e i suoi compagni vedono queste belle ragazze “bionde” ma non sanno quale tremenda fine le aspetta. Comunque più numerosi delle sentinelle, sono i pidocchi, Giovanni e i suoi compagni sono letteralmente assediati: “facevamo bollire i vestiti nei pentoloni ma passato qualche minuto quei pidocchi rispuntavano al sole più numerosi di prima” Era un vero e proprio tormento. Il compagno di letto a castello di Giovanni quei vestiti se li tiene sempre addosso e ovviamente è pieno di pidocchi. Un giorno vuole fare cambio di letto, lui sopra e Giovanni sotto. Lui lo accontenta perché quello è gia un uomo d’una certa età. Purtroppo quel favore gli costa caro, visto che così facendo i pidocchi gli cadono in testa dall’alto, povero Giovanni. “C’erano di quelli che non si lavavano mai e tenevano le scarpe anche a letto perché di notte toccava alzarsi quattro o cinque volte alla sirena per nascondersi nei camminamenti antiaerei”. Quando alla notte non c’era nessun allarme di bombardamenti in vista, capitava che a turno si andasse nel buio delle campagne a rubar patate. Era l’unico modo per alleviare quella fame tremenda che non li abbandonava mai. I contadini tedeschi conservavano le patate sotto dei covoni di paglia ma i contadini della Val Ceno avevano presto fiutato il bottino. Così di notte sgusciavano furtivi per chilometri e chilometri lungo i campi, alla ricerca di quelle riserve preziose. Capitò che una notte sbucò un cane di grossa taglia all’improvviso, Giovanni e gli altri schizzarono via veloci col cuore in gola e il cappello di Giovanni volò per aria “laggiù ce l’hanno ancora il mio cappello!”
13 mesi e 12 giorni, ancora oggi Giovanni ricorda perfettamente quanto durò la sua Odissea ai tempi della guerra. 13 mesi e 12 giorni di prigionia, con l’unico obiettivo di resistere a tutto, in attesa che la guerra finisse. I prigionieri della Val Ceno venivano utilizzati come manodopera per lavori marginali. Capitava di caricare un camion di mattoni, oppure di andare a riempire le buche lasciate a seguito di qualche bombardamento. Ma agli ignari contadini capitava anche d’andare a ricoprire di terra i cadaveri dei campi di concentramento. Giovanni mi racconta che più di una volta furono portati a riempire di terra quelle “enormi buche” che oggi sappiamo essere fosse comuni, dove venivano sotterrate centinaia di vittime dei Lager di sterminio. “Prendevamo la terra da una parte e la buttavamo nelle buche dove c’erano questi morti uno attaccato all’altro, tutti coperti dai lenzuoli, così facevamo spazio per un’altra buca. Ci sono andato tante volte.” Praticamente, a quel punto, Giovanni era arrivato in fondo all’ultima fermata dell’inferno nazista senza quasi rendersene conto, protagonista e testimone allo stesso tempo.
Intanto correva voce che la guerra stesse per finire ed infatti i soldati tedeschi scomparvero da un giorno all’altro. Dopo un anno di prigionia i contadini della Val Ceno erano magri e stanchi ed il più magro di tutti era proprio Giovanni. La guerra era terminata ma l’Odissea dei prigionieri doveva scrivere l’ultimo capitolo, quello del ritorno verso casa. Nell’estate del ’45 la Germania si era ridotta ad un enorme cumulo di macerie e viaggiare attraverso i territori sconvolti dalla guerra, era un’avventura dal finale incerto. Un giorno davanti alle baracche arrivarono i camion dell’esercito americano e così i contadini della Val Ceno iniziarono il viaggio verso casa.”Gli Americani ci hanno portato avanti per un pezzo poi il resto l’abbiamo fatto in treno, sù e giù da un vagone all’altro”. La sera del 29 Agosto ’45, dopo aver dormito sui treni di mezza Europa e aver camminato a piedi per chilometri, Giovanni finalmente fece ritorno a casa. Quella sera d’estate, come le altre, ai Segarati la gente si radunava alla buona, una sera qua e una sera là. Nel mondo contadino di quei tempi, la giornata terminava attorno all’aia a raccontarsi storie e scambiarsi impressioni. La gente dei Segarati teneva sempre un occhio verso il fondovalle con la speranza di scorgere la figura di qualcuno dei suoi figli scampati alla guerra. Giovanni, pelle e ossa, quella sera attraversato il ponte sul fiume risaliva lentamente verso casa e subito la gente dei Segarati riconobbe la sua figura. Al suo arrivo le parole lasciarono il posto alle lacrime e a una serie infinita di abbracci.
Sotto quel corpo esile Giovanni nasconde una scorza dura, lui forse non lo sa ma è un prescelto. E’ uno straordinario testimone della storia. Testimone di un mondo agricolo sopravvissuto grazie alla tenacia di gente come lui. Pochi uomini riescono ad attraversare le avversità di una vita tanto travagliata, riuscendo a rialzarsi dopo ogni caduta. In questi giorni, mentre scrivo la sua storia, ci ha abbandonato la sua adorata Paola che lo ha accompagnato con dolcezza per oltre cinquant’anni nel cammino della sua vita. Eppure Giovanni s’è rialzato anche questa volta, a novant’anni suonati.
Nel ’39 quando era ancora fanciullo un incendio tremendo aveva distrutto la sua casa. Una povera famiglia contadina a quei tempi, dopo una sciagura simile, si ritrovava sul lastrico. Furono costretti a vendere i buoi. Ma fortunatamente allora esisteva ancora una forma di mutuo sostegno, una fratellanza basata sulla condivisione delle fatiche in campagna e delle ristrettezze materiali. Così la famiglia Marenghi ricevette dei prestiti per ricostruire casa. Si era alla soglia della Seconda Guerra Mondiale. La guerra qualche anno dopo costringerà Giovanni a ben tredici mesi di prigionia.
Quando poi negli anni ’50 lentamente le famiglie contadine stavano riuscendo a migliorare la propria condizione, un’altra tremenda avversità si scagliò contro Giovanni. Era piena estate ed avevano appena terminato di falciare orzo e grano, radunato in covoni come si faceva una volta. A quei tempi la macchina per battere il grano veniva trasportata di villaggio in villaggio e la battitura era un vero e proprio rituale al quale partecipavano tutti. Quella mattina appena avviati i macchinari, le scintille dei motori a scoppio dell’epoca innescarono un incendio tra i covoni. Quelle fiamme improvvise, forse grazie anche a qualche folata di vento, aggredirono tutti i cereali pronti per la trebbiatura. Una vera e propria catastrofe, tutto il raccolto andò in fumo in pochi minuti. Di nuovo toccava cominciare da zero. Ma la corsa ad ostacoli di Giovanni non era ancora finita. Nel ’73 di nuovo una prova difficile: a giorni avrebbe dovuto ritirare il trattore nuovo ma accadde che il tronco di un albero gli spezzò il femore. Sei mesi di ricovero forzato in ospedale, immobilizzato in un letto aspettando che la frattura scomposta si ricomponesse. Dovette pagare un operaio per farsi sostituire oltre a dover firmare una grossa cambiale per il ritiro del trattore. In casa due figli piccoli da crescere. Giovanni è sempre stato esile come una spiga di grano eppure non si è mai spezzato, e proprio come una spiga di grano sotto la forza di una tempesta, si è piegato tre, quattro volte ma non si è mai spezzato. Giorno dopo giorno anche dopo l’ennesima sventura, ha avuto la forza di rimettersi in piedi e guardare avanti.
Quel pomeriggio quando Giovanni mi ha raccontato la straordinaria storia della sua vita, in quel momento ho avuto l’impressione che di uomini come lui oggi si è perso lo stampo. Eppure il suo aspetto non suggerisce affatto quell’idea di forza che potrebbe lasciar intendere: in fondo, Giovanni è soprattutto un uomo mite che ha amato la sua famiglia, la sua terra ed il suo bestiame, allevato con amorevole cura. La sua vita è stata scandita dalle fatiche nei campi e nella stalla. La domenica in chiesa a santificare la festa. Credo che in lui ci sia sempre stata la fiducia in un futuro migliore anche nei momenti più difficili della sua vita. In questo senso lui è un grande esempio per tutti, testimone di un secolo di cambiamenti storici ma soprattutto testimone di un senso profondo della vita.

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