La via Maestra

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-La scoperta di un senso profondo-

Questa storia prende il via in un caldo pomeriggio d’inizio Agosto, in un cimitero. Il viaggio che stavo per intraprendere in qualche modo lo dovevo a Renzo. E a me stesso.

Il ricordo però corse a quei primi giorni del Giugno 2012 caldi e assolati che già preannunciavano l’arrivo dell’estate. Ero sempre alle prese con la mia vita da eterno precario, aggrappato alla speranza di uscirne prima o poi, sballottato dai turni di lavoro. Mi ricordo che mio padre entrò in casa annunciando quella tremenda notizia “il Renzino si è buttato giù dal ponte di Realdino”. Fu come un fulmine a ciel sereno…”uno che passava in macchina l’ha visto oltre l’inferriata, si è fermato e l’ha chiamato. Il Renzo l’ha guardato senza dire una parola. E poi si è lasciato andare”. Mi si strinse lo stomaco… Il Renzino come lo chiamavamo noi in famiglia, era cugino di mia mamma. In paese ci si conosceva anche se non posso dire di averlo mai frequentato. Però quando per caso ci incontravamo, ci salutavamo cordialmente. Era proprio un bel ragazzo il Renzo, alto, sempre gentile e con un bel sorriso. Renzo aveva la faccia pulita. Dai racconti familiari di quel giorno mi è rimasta un’unica impressione che non riesco a togliermi dalla mente. E’ una sensazione che mi fa venire un nodo in gola che proprio non va giù. Renzo era solo, era tremendamente solo e disperato. Quel giorno di Giugno quando si lasciò andare, aveva la stessa età che ho io adesso. Ho pensato molto a lui in questo periodo. Perché quel ricordo oggi viene a bussare alla mia porta con tutta la sua forza. Come può un giovane uomo educato, di bell’aspetto e dai modi garbati, soffrire così tanto? Com’è potuto succedere che un ragazzo così per bene a cui la vita avrebbe dovuto sorridere, invece abbia perso qualsiasi speranza nella vita stessa… Non conosco le risposte ma so solo che Renzo ha sofferto in silenzio. Penso che il suo amore verso la sorella già sposata e il fratello con problemi psichici, lo abbia spinto a non caricarli del suo intimo malessere. Persino i nostri animali domestici si nutrono del nostro calore umano e invece Renzo ha finito i suoi giorni come un cane abbandonato lungo una strada deserta. Non voglio parlare di me stesso, non riuscirei ad essere sufficientemente sincero. Però l’estate 2019 che sta infrangendo ogni record di calore è insopportabile come molte cose della mia vita. Così lui è venuto a bussare. In questi giorni Renzo è diventato un fratello che mi guarda coi suoi occhi sinceri e mi capisce. E io capisco lui. Dimmi Renzo, che aspetto aveva il tuo volto un attimo prima di lasciarti cadere, quando hai lanciato l’ultimo sguardo verso quell’uomo implorante? Era deformato dalla bestia che ti portavi dentro o aveva già assunto sembianze angeliche? Tu che da lì ad un attimo saresti volato verso il cielo…Renzo perché ci hai lasciato? Noi tutti avevamo bisogno di vedere ancora mille volte il tuo docile sorriso. Questo mondo aveva ancora tremendamente bisogno di un uomo buono come te. O Forse no, forse non ti meritava.

Sono di fronte all’ossario che raccoglie i suoi poveri resti. Guardo la foto in attesa che mi dica qualcosa e ritorna quel maledetto nodo in gola e mi viene da piangere. Renzino non ce l’ha fatta a rimanere aggrappato ad una vita che gli ha portato troppe amarezze e delusioni. “Caro Renzo, spero che lassù tu possa avere quell’amore e quell’affetto che non hai trovato a questo mondo, lo spero di cuore, te lo meriti tanto…” Poi mi ricordo che c’è dell’altro: “senti… questo viaggio lo dobbiamo fare assieme perché credo che a questo mondo ci siano ancora luoghi in cui si può ritrovare la pace.  Persino nel nostro martoriato Belpaese. Camminare nel silenzio delle foreste per rigenerare il nostro equilibro interiore. E tu sarai il mio compagno ideale di viaggio. Forse laggiù un individuo può riscoprire la sua vera essenza…lo spero. Vieni con me Renzo…la bellezza si incontra spesso in certi luoghi dimenticati. Andiamo…

3 Agosto, Milano

Lo zaino è stracolmo. Ogni spazio al suo interno è stipato al massimo. Non è la prima volta che lo utilizzo ma in realtà è come se lo fosse: ogni viaggio si porta con se un carico di aspettative diverse e noi non siamo mai esattamente gli stessi del passato. Cambia il nostro stato d’animo e persino le nostre condizioni fisiche sono mutate. E così questo zaino in spalla è un nuovo “compagno” a cui dovrò fare l’abitudine. Così come dovrò abituarmi a tenere ai piedi gli scarponi da montagna per gran parte del giorno. Combinato in questa maniera, sono una specie di marziano che si muove tra le stazioni della metropolitana milanese. Lunghi corridoi e scale mobili mi conducono nelle viscere della città dove là sotto mi accingo a prendere il cosiddetto “Passante” che mi condurrà in quel di Treviglio. Gigi mi verrà a prendere in stazione e poi proseguiremo verso Sud, in direzione Modena.

Ma un passo per volta…ora mi trovo nella penombra della stazione sotterranea di Piazza della Repubblica. Ci sono forse solo due persone che dividono con me la banchina, per il resto, deserto agostano milanese. Ma sorprendentemente sul treno la situazione è diversa. Questo convoglio che attraversa lunghi labirinti nelle tenebre del sottosuolo, porta con sé un carico umano assai variegato: cinesi, cingalesi, peruviani, neri di varie etnie. Gli italiani sono una minoranza. Forse si tratta di un’umanità invisibile, poco considerata, soprattutto nei giorni delle fughe vacanziere. Eppure esistono, sono un esercito pacifico in marcia. Entrano ed escono dalla grande città per fare i lavori più umili e disprezzati oppure si mischiano nel grande formicaio, semplicemente alla ricerca di una fortuna che inseguono con tutti i mezzi possibili. Molti di loro vivono nella sconfinata periferia metropolitana e prendono treni come questo, nei giorni e negli orari più improbabili.

A Treviglio aspetto qualche minuto nella piazza della stazione, poi arriva Gigi, il sempre pronto. Lui è quello che prepara lo zaino in men che non si dica e anche nelle faccende più importanti è capace di sbrigarsela sempre in fretta, è una dote che gli invidio. Ci conosciamo ormai da molti anni e basta qualche semplice gesto per ristabilire quella naturale empatia che esiste tra noi. Eccola la sua vecchia Punto arrivata all’ ultima corsa prima di finire dallo sfasciacarrozze. Alla fine sono riuscito a convincerlo a prendere parte a questa mia nuova avventura anche solo per qualche giorno. Sono felice di averlo al mio fianco, siamo pronti, saltiamo subito in macchina, sorridiamo e sghignazziamo sotto i nostri occhiali da sole.

Fortunatamente in autostrada il traffico è scorrevole e tra una chiacchiera e l’altra non ci accorgiamo quasi nemmeno di essere arrivati a Modena. Ma siamo giusto a metà del percorso e da lì in poi cominciano ad alternarsi fondovalle e colline senza fine. Attorno a Pavullo nel Frignano ci perdiamo, poi ritroviamo la strada ma i saliscendi non finiscono mai. Fino a giungere nel tardo pomeriggio al Passo. L’impressione è subito netta: l’Abetone è una nobile decadente, d’estate ha l’aspetto di una specie di Rimini di montagna, disordinata e caotica. Facciamo un giro attorno allo spiazzo principale che racchiude una serie di negozi e la struttura di un grande albergo abbandonato. Poi in mezzo a macchine, moto e turisti sciamanti, ci dirigiamo verso le due piramidi, l’unica memoria storica di questo antico valico. Nessuno le degna della minima attenzione, si confondono in mezzo al traffico. Eppure furono erette nel 1778 per volere del Granduca di Toscana e del Duca di Modena, al termine di lavori stradali durati almeno un decennio con l’impiego massiccio di maestranze locali. I due sovrani vollero porre i loro sigilli per celebrare il valore di un’opera strategica per il transito di merci e uomini. Di fatto l’Abetone alla fine del settecento si rivelò il primo e più importante valico appenninico per l’attraversamento della penisola italiana. D’altronde la sua importanza era già nota da secoli, quando in epoca romana Annibale passò da quelle parti con il suo esercito. Anche la pensioncina che scoviamo a qualche centinaio di metri dal Passo, testimonia i fasti del passato con le pareti tappezzate di foto d’epoca e vecchissimi ritagli di giornale che riportano le gesta eroiche di Zeno Colò. Dopo cena andiamo a letto presto perché l’indomani si inizierà a fare sul serio.

4 Agosto

Segnavia biancorosso doppio zero, non possiamo sbagliarci. Appena lasciato l’abitato, imbocchiamo il sentiero in direzione sud e com’era inevitabile che fosse, subito ci accoglie una foresta di abeti. Ma appena dopo una ventina di minuti, sbuchiamo nella luce del mattino. Si preannuncia una giornata di sole incontrastato anche ad alta quota. Naturalmente la cosa non può che farci piacere e infonderci buonumore. In mezzo ai bassi cespugli di mirtillo selvatico, il dislivello aumenta gradualmente così che il nostro fisico ha tutto il tempo di adattarsi. Passo dopo passo, la sudorazione corporea si fa sempre più intensa ma non ci infastidisce più di tanto. Scambiamo poche parole, non abbiamo bisogno di una gran comunicazione verbale, piuttosto è il momento di gustarci lo sconfinato panorama di fronte ai nostri occhi. La nostra vista spazia per chilometri lungo il crinale Tosco –Emiliano, i rilievi che dovremo raggiungere sono lì davanti a noi. Attraversiamo brulle praterie d’alta quota con una vista panoramica a trecentosessanta gradi attorno a noi. I colori delle erbe e dei fiori sono resi brillanti dal sole alto nel cielo. A completare questo quadro idilliaco c’è qualche nube bianca che si muove lenta e discreta nel mare blu capovolto sopra le nostre teste. In questo stato di grazia la fatica non costa nulla, anzi contribuisce in qualche modo ad elevare i nostri sensi. Presto raggiungiamo la sommità del Libro Aperto, si tratta di una cresta montuosa che svetta sopra le altre. Siamo letteralmente abbracciati da una luce strabordante che esalta forme e colori. E allo stesso tempo siamo assediati dalle mosche senza capirne la ragione ma tant’è, la natura ha sempre più spesso equilibri insondabili per la specie umana. La montagna regala tanta bellezza e aspri contrasti. Però in montagna accade spesso una cosa che è unica nel suo genere. Accomunati dalla fatica, lassù gli uomini si spogliano più facilmente dai conformismi e dai condizionamenti della società cosiddetta “civilizzata”. Tanto più sono grandi gli sforzi che si profondono per stare lassù, tanto maggiore sarà questo effetto di spoliazione dalle maschere che la società ci impone. Pensare di andare in montagna senza fare fatica ci priverebbe del senso più profondo dell’andare in montagna. Incontriamo Valerio, un montanaro di Granaglione e con lui parliamo di storia e di vita rurale, quella d’Appennino, fatta di piccole comunità spesso isolate e un po’ fuori dal mondo, fatta di gente che resiste alle avversità climatiche e non solo. Ci dice che ci stiamo inoltrando in un territorio che fu confine fra tre stati: Ducato di Modena, Granducato di Toscana e Stato Pontificio. Anche se ai montanari lassù non è mai importato molto. Badavano piuttosto a governare i loro pascoli e il loro bestiame. Ora ci muoviamo tra un susseguirsi di balze che ci impongono un saliscendi continuo. L’Abetone è ormai un orizzonte lontano. Poco prima del Passo della Croce Arcana incrociamo un folto gregge di pecore nere che fanno da contrasto alle nubi bianche che ora si ammassano prepotenti sopra di noi. Poi seguendo un leggero declivio, raggiungiamo il Passo dal nome evocativo e misterioso. Storie di Longobardi e Bizantini, storie di Cavalieri Templari s’intrecciano sotto questo valico delimitato nei secoli da una Croce Arcana che aldilà dell’origine del nome, aveva senza dubbio la funzione d’indicare la via a pellegrini, mercanti ed eserciti. Le testimonianze storiche che accertano la presenza di alcuni hospitali , antichi antenati dei moderni ostelli, sono numerose. Gestiti dai monaci e persino dall’Ordine dei Templari, assicuravano protezione ai viandanti che affrontavano lunghi viaggi verso Roma o le Alpi.

Saranno le nubi, sarà la vastità dei territori sottostanti, ecco che ancora oggi sarebbe facile immaginarsi carri trainati da buoi ricolmi d’ogni tipo di mercanzia, oppure soldati a cavallo. Si potrebbero scorgere sugli ultimi dislivelli che conducono al valico, monaci e pellegrini in umili vesti al seguito di un povero asinello al dorso del quale è assicurato alla bell’e meglio il fardello del viaggio. Invece la scena è ben diversa: il Passo è affollato dai gitanti di giornata che hanno parcheggiato i loro fuoristrada un po’ ovunque. Aprono le portiere, scaricano borsoni strapieni di chissà che cosa. C’è chi su un carrellino a due ruote ha riposto le sdraio pieghevoli. La loro gita di giornata si conclude in venti minuti. Giusto il tempo di raggiungere il Lago Scaffaiolo e il rifugio circostante. Sono tutti lì attorno, ammassati l’uno addosso all’altro. Qualche tempo dopo, leggerò la notizia che riferisce delle intenzioni del  Sindaco di Fanano, nel versante modenese, di asfaltare la strada che raggiunge il Passo, in modo da facilitare la mobilità locale e il turismo. Così finalmente in cima alla Croce Arcana si potranno parcheggiare centinaia di autoveicoli in tutta comodità. Pazienza poi se quel luogo verrà snaturato e non somiglierà più in nessun modo a quel valico millenario così ricco di storia…che poi in fondo chi se ne fotte della storia, l’importante è che i gitanti della domenica possano raggiungere senza sforzi la cima, scaricare tutto il necessario per i bagordi di giornata e banchettare dicendo: “ah che bella l’aria di montagna”. Illustri pensatori hanno più volte affermato che un popolo senza storia è un popolo senza futuro, cioè destinato al declino. Vedendo luoghi belli e fragili come questi, mi chiedo se nel 2020 gli italiani abbiano conservato ancora un briciolo di coscienza critica.

Al Rifugio Duca Degli Abruzzi il primo istinto è quello di fuggire. Non è possibile nemmeno varcare la soglia, tanta è la fila di persone in attesa di entrare. Gigi però non ha nessuna intenzione di muoversi e tantomeno di sobbarcarsi ancora una o due ore di cammino per raggiungere il rifugio successivo che tra l’altro nemmeno sappiamo se è aperto. Io alla fine decido di attendere nel prato tenendomi ad una certa distanza da tutto quel caos. Poi quando la giornata volge al termine, finalmente la maggior parte dei gitanti se ne va alla spicciolata. Finalmente, seduti su una panca di legno sorseggiamo due birre mentre le luci del tardo pomeriggio tagliano oblique i rilievi montuosi. Su un’altra panca vicino a noi c’è un vecchietto dalla faccia simpatica col suo cane. Si chiama Franco, viene da Cutigliano giusto ai piedi della montagna. E’ uno di quegli incontri che ti riconciliano con la specie umana. Franco è un uomo gioviale, racconta del suo amore per questi luoghi, per la caccia che era solo una scusa per stare all’aria aperta in mezzo alle sue adorate montagne. Era bello concludere la giornata in qualche rifugio od osteria. Dice che da anni sale fin quassù in compagnia del suo cane, Pece, per godere di tutta questa bellezza. Là sotto, sulla riva del lago ci indica la sua tenda che è anche l’unica. Potrebbe dormire nel rifugio ma lui sta bene lì a diretto contatto con la natura. Franco è un libro aperto: spazia dalla Russia terra natale della sua seconda moglie, alla vita da pastore che ha fatto da giovane. Fino a suo figlio che ha deciso di fare il contadino di montagna, scelta non facile con i tempi che corrono ma certamente dettata dall’ attaccamento a quella terra. Poi con semplicità estrema mi dice che quassù è tutto più bello e la sua faccia è l’espressione della felicità. Che fortuna averlo incontrato.

La sera davanti a una zuppa di cereali facciamo conoscenza con Eleonora e Federico, due amici che come noi stanno affrontando alcuni giorni di trekking insieme. Con loro stabiliamo subito una forma di empatia che ci porta a dialogare piacevolmente tra i più svariati argomenti, come se ci conoscessimo da una vita. Siamo tutti stanchi ma sereni, ed è forse proprio questa condizione psico-fisica che facilita una conversazione priva di filtri e preconcetti.

Prima di infilarmi sotto le coperte esco nel buio della notte ad ammirare il cielo stellato. E il mio pensiero va al caro Renzino che forse – lo spero – dall’altra parte del cielo starà vedendo il medesimo spettacolo “questo è il nostro cielo, buonanotte Renzino”.

5 Agosto

La foresta di Tiziano è magica. Abbiamo cominciato di buon’ora il nostro cammino aggirando il Corno alle Scale e intraprendendo una lunga discesa. Ora sotto di noi, la foresta dell’Orsigna è di una vastità sorprendente. E’ eterna, la vita al suo interno si perpetua nei secoli immutata. Ogni albero vive, muore e rinasce lì dove qualche centinaio d’anni prima aveva preso forma. Abeti e faggi svettano altissimi, tanto che per scorgerne la cima bisogna ruotare completamente la testa all’indietro. Attraversarla è un esperienza spirituale …non si tratta semplicemente del vento che muove i rami, c’è qualcosa di più, si avverte un’energia fluttuante. E’ una foresta che incute quasi timore. Ma se ci si inoltra al suo interno col dovuto rispetto, allora il timore si trasformerà in pura ammirazione. Tiziano Terzani, il grande scrittore e giornalista, tutto questo lo aveva capito molto prima che io arrivassi col mio zaino in spalla. Giungiamo al centro del borgo all’ora di pranzo, accolti da un sole cocente, inondati dalla luce del mezzogiorno. E’ esattamente come ci era apparso dal crinale della montagna:  un piccolo villaggio immerso nella foresta. Pranziamo sotto il gazebo dell’unica bottega presente in paese. Nel frattempo non perdo tempo e chiedo subito indicazioni per la casa del Tiziano. Però dopo aver addentato i nostri panini, la prima cosa da fare è quella di chiamare gli unici tre numeri che offrono, teoricamente, un posto letto per la nottata. Ma ci va male perché i due alberghetti e l’unico B&B presenti, sono già al completo. In aggiunta, la vescica che ho sul mignolo del piede ha cominciato a darmi fastidio e per proseguire mi ci vuole un cerotto. Potrebbe sembrare un fatto di scarso interesse ed invece quel cerotto che mi accingo a mettere, unito alla notizia che per noi non c’è alcun posto per la notte, fanno scattare nella testa di Gigi un senso di repulsione per quel luogo. Il fatto è che l’unico modo per trovare un letto è quello di raggiungere il Rifugio Monte Cavallo affrontando la lunga risalita verso il crinale appenninico. Tempo stimato: dalle due alle tre ore. Il pomeriggio è soleggiato e caldo e Gigi non vuol perdere neanche un minuto, io sì però. Per me vedere la casa di Tiziano Terzani è troppo importante. Nei suoi scritti ho trovato insegnamenti di vita universali uniti ad una conoscenza del mondo e dell’animo umano senza eguali. Non esagero nel dire che il Tiziano per me è stato un Maestro. Lui che da giornalista inviato sul campo, ha conosciuto paesi e culture meglio di chiunque altro. Lui che ha affrontato la sua vita animato dall’ideale superiore della ricerca della verità. Per lui l’Orsigna era soprattutto quel luogo dell’anima dove ritemprarsi lontano dalla volgarità dei nostri tempi. Come diceva lui, era la sua piccola Himalaya dove sentiva la magia della vita…

Ci dividiamo bruscamente. Gli amici delle volte sanno essere crudeli, nessuno meglio di loro conosce i nostri punti deboli: “la casa di Terzani non m’interessa” quelle parole pronunciate da Gigi, in quel preciso istante mi arrivano come un pugno dritto in faccia…ma anche in queste situazioni, in fondo gli amici dobbiamo amarli lo stesso perché passata la bufera del momento, poi il nostro legame sarà più forte di prima. Lo zaino ora chissà perché mi pesa tantissimo. Sudato, cerco la casa di Tiziano tra le curve della strada deserta che sale verso un borghetto di una manciata di case…e intuisco subito quale sia la sua dimora: è una specie di villino tinteggiato di rosso con un porticato e un’ampia vetrata. E’ disposto su un rilievo del terreno come se fosse un terrazzo affacciato di fronte alla maestosità della foresta. Nel giardino, qualche metro sotto, c’è un piccolo rifugio in legno dipinto di rosso dove Tiziano intrattenne quegli ultimi dialoghi illuminanti col figlio. Scopro che la moglie è in casa ma una giovane vicina mi dice che la famiglia desidera riservatezza. Scambio due parole con una vecchina che immagino lo avrà conosciuto bene. Lei mi dice:” col Tiziano s’è cresciuti insieme, quando arrivava lui, era una festa”. Terzani che aveva vissuto in Cina, America, Giappone e mille atri posti, quando arrivava all’Orsigna si sentiva a casa. E gli abitanti del borgo lo percepivano come uno di famiglia. Poi la vecchina aggiunge un’altra considerazione: “ quando arrivava il Tiziano mi diceva – vedi Angelina, son bell’arrivato” come se fosse un fratello maggiore.

Il tempo stringe, devo risalire la montagna, per raggiungere il rifugio mi aspettano ancora tre ore di cammino con i piedi incerottati. Saluto quelle persone ringraziandole delle poche parole che mi hanno concesso.

La giornata era cominciata presto, sospesi sul crinale di vetta con una vista di foreste infinite sotto dirupi scoscesi, immersi nella luce dorata del mattino. Quella vista così sublime lungo il percorso, mi diede la possibilità di riflettere sul significato del cammino, finché a un certo punto mi fu tutto più chiaro. Mi parve di sentire una voce sussurrare le seguenti parole: “passo dopo passo, il fardello delle nostre esistenze si alleggerisce e noi ci liberiamo da tutti quei condizionamenti che la vita ci impone. Passo dopo passo, ci sentiamo sempre più in comunione con la natura che ci circonda, fino a ritornare ad essere creature di quel tutto di cui ci siamo dimenticati. Così ammiriamo i fiori, le bacche, i mirtilli selvatici, i lamponi, le distese erbose e le immensità delle foreste. E scopriamo in qualche modo di farne parte. Infine riscopriamo la nostra vera essenza.      E’ la nostra coscienza intorpidita che si risveglia e noi siamo spinti dal desiderio di attraversare quei luoghi con passo leggero, quasi senza lasciare traccia, affinché  la loro magia possa perpetuarsi in eterno.”

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