Ricordati dell’amore – seconda parte –

Maggio, primavera inoltrata. L’inverno nella grande metropoli era ormai alle spalle da un pezzo e  i tavolini all’aperto dei caffè, comparivano qua e là. C’era un’atmosfera di grande fermento, musicisti di strada, ballerini e performer d’ogni tipo adesso sbucavano ad ogni angolo della città. Era dal mese di Gennaio che Cristina non sentiva più Alessio. Quell’ultima volta via Skype, così come la volta precedente, Alessio le aveva fatto una mezza scenata sul perché non gliene fregasse più niente di lui e del suo paese. Poi non l’aveva più chiamata e lei non se la sentiva più di ripetere sempre le stesse scuse e le stesse giustificazioni. Sì, ad Alessio ci pensava ancora, in fondo gli dispiaceva non sentirlo più. Ma lei adesso stava bene a New York, certo non era in grado di prevedere il suo futuro però voleva vivere al massimo questo periodo importante della sua vita. Ormai usciva regolarmente con Thomas e anche quando faceva una serata con i colleghi, Thomas c’era sempre. Cristina era stata sincera con lui: le piaceva, ci stava bene insieme ma non voleva sentire parlare di fidanzamento. Gli aveva spiegato che questo era un periodo fantastico della sua vita ma prima o poi sarebbe tornata in Italia e quello non era il momento di fare progetti a lungo termine.

Stava seduta su di uno di quegli sgabelli rialzati di fronte alla vetrina semi aperta di uno snack-bar in compagnia di Paula, ogni tanto ci andavano dopo il lavoro. Quel bar era affacciato su una strada laterale a poche decine di metri dal palazzo dove c’era il loro laboratorio. Sul tavolino due caffè americani nei classici bicchieri di carta. Stavano parlando del buon andamento dei test sulle nuove molecole da laboratorio ed erano orgogliose del fatto che presto il loro nome sarebbe comparso su una rivista scientifica del settore. Poi Paula disse: “ le opportunità che abbiamo qui sono infinitamente superiori a quelle che abbiamo nei nostri rispettivi paesi…sia dal punto di vista lavorativo che nella vita privata. Lo sai che la Direzione Generale in collaborazione con l’ufficio Human Resources, dal terzo anno di lavoro per la filiale di New York, può avviare il procedimento per la Green Card? Certo, alla base ci deve essere l’espressa volontà del dipendente a conseguire la carta…Permesso di Soggiorno Permanente, ottenere la Green Card significa avere gli stessi diritti di qualsiasi cittadino americano. Pensa a quanti immigrati se la sognano e invece per noi è a portata di mano”. Sì, Cristina era a conoscenza di questa opportunità ma in realtà non gli aveva mai dato troppo peso. Poi Paula le disse che lei personalmente si vedeva a New York per il resto della sua vita “io ed Enrique vogliamo restare. Il nostro paese è pieno di problemi ma non è questo il motivo della nostra scelta. Onestamente vogliamo vivere a New York perché questa città ci trasmette la sua energia, ci fa sentire protagonisti delle nostre vite. Capisci cosa intendo?”. Anche se Cristina fondamentalmente condivideva quelle motivazioni, aveva però un’ opinione leggermente diversa. Paula le disse: “ E tu, ci hai pensato? Tu e Thomas siete perfetti insieme…e poi mi hai detto mille volte che questa città è il posto migliore del mondo…” “ si è vero, probabilmente New York è il posto più bello che conosca ma io questa l’ho sempre considerata un’esperienza di vita, sia per migliorarmi dal punto di vista professionale, sia per conoscere questa parte di mondo. E poi perché New York è in cima alla lista dei sogni di tutti”. Paula non capiva “ ma scusa ora quel sogno puoi farlo diventare realtà! Qualsiasi cosa tu desideri fare nella vita, beh qui a New York puoi realizzarla. Il mio sogno ad esempio è quello di creare un laboratorio erboristico e potenziare i principi attivi delle specie vegetali e so che qui posso ottenere dei finanziamenti molto vantaggiosi…” Cristina a differenza sua, non aveva un’idea così netta sul futuro. Forse avrebbe voluto vivere solamente una vita decente, fare esperienze interessanti, sentirsi soddisfatta di ciò che avrebbe avuto e magari un giorno avere dei figli. “Paula tu hai tutto così chiaro nella tua testa…ma per me non è così. New York è un capitolo bellissimo della mia vita ma non credo di volerci restare per sempre”  “e allora vuoi tornare in Italia in quella tua valle in mezzo alle montagne?” le disse Paula in tono spregiativo “ e magari ritornare insieme a quel tuo ragazzo che avevi…secondo me ti rifiuti di guardare la realtà” “… la realtà??” Cristina non capiva il senso di quelle parole “sì certo, la realtà è che se tu veramente in quel tuo paese ci stavi bene, te ne saresti rimasta lì. Invece appena si è presentata l’occasione, te ne sei andata di corsa…ma io ti capisco sai, quando vedi che tutto rimane sempre uguale a prima e che la mentalità delle persone non cambia mai, non si evolve mai…”  “ma no, non è vero io in fondo appartengo alla mia terra e alla mia gente” disse Cristina ma nello stesso istante pensò se quell’ affermazione fosse ancora vera oppure solamente una sensazione sbiadita.

Undici mesi. Erano trascorsi undici lunghi mesi dalla partenza di Cristina, Alessio aveva vissuto una condizione continua di depressione latente. Chi lo conosceva gli diceva di dimenticarsi quella ragazza e guardare avanti. Era stupido rovinarsi l’esistenza per una persona che semplicemente aveva preso un’altra strada. Bisognava farsene una ragione, quella ragazza aveva deciso di uscire dalla sua vita. Magari un’altra era pronta ad entrarci. Alessio alla fine aveva deciso di convivere con quella ferita. Aveva deciso di smettere di farsi del male. Aveva deciso di andare avanti, di accettare  quel vuoto dell’anima.

Cristina in metropolitana di ritorno dopo una corsa al parco. La primavera a New York era nel pieno del suo vigore, e ad una sola fermata da casa, Cristina andava a sfogare di corsa lo stress accumulato al lavoro.  Nella  bella stagione il jogging diventava una specie di rito collettivo, una pratica fondamentale per il benessere psico-fisico del cittadino moderno.  Come lei, decine, centinaia di persone sgusciavano tra i marciapiedi affollati per raggiungere i parchi cittadini. Calzamaglia nera, body rosa fosforescente da running, cuffie Blue Tooht e immancabile fascia smartphone ad avvolgere il bicipite sinistro. In quella sua tenuta da atleta metropolitana, Cristina si sentiva appagata al termine di una giornata intensa. Il suo lavoro alcuni giorni esigeva una concentrazione massima per tutta la giornata. Andare a correre al parco allora diventava un’attività indispensabile per scaricare lo stress, un bisogno fisiologico irrinunciabile. Se ne stava in piedi in un angolo del vagone appoggiata ad una sbarra in prossimità dell’uscita. La metro a quell’ora era affollata e dopo la corsa non le piaceva sedersi spalla a spalla con altri passeggeri quando era ancora sudaticcia ed accalorata. Preferiva starsene un po’ in disparte ad ascoltare la propria musica. E poi il tragitto verso casa era breve. Ma quella sera le sensazioni non furono esattamente piacevoli come le altre volte. Sentì una forma di debolezza simile a quella che si prova quando si prende un’influenza. Al rientro scambiò due chiacchiere con Matilde la sua coinquilina e andò a letto presto, si sentiva particolarmente stanca. Per Cristina era stata una fortuna  aver incontrato Matilde. Si erano conosciute quando ancora dormiva in albergo nell’attesa di trovare una sistemazione. Durante il suo primo periodo di ambientamento nella Grande Mela, Cristina si era iscritta ad uno di quei siti per espatriati all’estero. Bastava inserire pochi dati personali e si entrava a far parte di una grande community di persone che condividevano la voglia di fare nuove amicizie con chi come loro affrontava la sfida avvincente di vivere a New York. Era un modo per socializzare e stabilire relazioni preziose per destreggiarsi nella grande metropoli. Conoscenze utili sia per il tempo libero sia per risolvere certe questioni pratiche, così come aveva fatto Cristina. Durante un aperitivo organizzato da una ragazza israeliana a cui avevano aderito un folto gruppo di partecipanti, Cristina incontrò per la prima volta Matilde. Lei viveva a New York già da tre anni e condivideva un appartamento con un’altra ragazza che però a breve si sarebbe trasferita. Per Cristina fu l’occasione perfetta. Matilde che si stava costruendo una carriera professionale all’interno del mondo assicurativo, diventò per lei quasi una sorella maggiore. Si stabilì fra loro una reciproca fiducia sin dal primo istante. Matilde con quel suo modo di fare così diretto e così spontaneo diventò per Cristina molto più di un’amica, la prima persona su cui poter contare. Cristina gli confidò le sue paure, i suoi desideri e le sue incertezze. Matilde la invitò a guardare al futuro con fiducia, accettando le sue debolezze come forze positive che l’avrebbero spinta ad essere una donna più completa e consapevole.

La mattina seguente Cristina si svegliò di nuovo stanca, con una leggera febbriciattola. Non riusciva a capire come fosse possibile prendersi un’influenza nel pieno della primavera quando le temperature erano sempre più elevate e le giornate sempre più lunghe. Matilde le disse che non poteva certo sapere cosa ci fosse nell’aria che respirava e perciò tutto era possibile. Cristina andò comunque al lavoro ma durante tutta la giornata si sentì fiaccata da quello stato di debolezza fisica fuori dalla norma. Thomas se ne accorse, Cristina quel giorno non era la stessa, se ne stava sulle sue e al lavoro era piuttosto taciturna “scusami, mi sento strana, forse ho anche un po’ di febbre”. Lui non seppe rispondere altro che “vedrai ti passerà, è solo un po’ di stanchezza”. Proprio quella sera avrebbe voluto invitarla a casa sua per una cenetta romantica come ogni tanto gli piaceva fare ma a suo malincuore capì che non era il caso. I giorni passavano ma quella sensazione di spossatezza non se ne voleva andare. La febbriciattola ogni tanto si faceva sentire e in aggiunta Cristina mangiava sempre più svogliatamente. Il cibo che masticava sembrava non avere più gusto e lei non sapeva come spiegarselo, era l’ennesima strana sensazione che si andava ad aggiungere alle altre. Dopo un po’ di giorni passati a prendere aspirine sperando in un imminente miglioramento, alla fine si decise ad andare dal dottore. Fu la prima volta che dovette ricorrere alle cure di un medico in America. Lo studio della dottoressa Hamilton era una delle strutture convenzionate con l’assicurazione medica aziendale.  Cristina pensò che quel luogo somigliasse a un qualsiasi altro studio medico nel mondo, ad eccezion fatta per i quadri pop che coloravano le pareti. La dottoressa Cynthia Hamilton era una bella donna di mezza età. Fece una buona impressione a Cristina, le chiese di descrivere le sue sensazioni. Poi la fece sdraiare sul lettino e le disse di rilassarsi. Con i polpastrelli cominciò ad esercitare una pressione crescente prima sotto la gola, poi attorno al collo ed infine in diversi punti del torace e dell’addome. Poi le disse di mettersi a sedere e aggiunse: “ adesso ti prescrivo degli esami del sangue completi e poi ci rivediamo tra tre o quattro settimane. Ma nel frattempo se insorge qualche nuovo sintomo non esitare a chiamarmi, ok? In aggiunta ti prescrivo una cura ricostituente per aumentare le tue difese immunitarie. Non preoccuparti, continua a fare le tue cose di tutti i giorni”. Cristina uscì dallo studio medico nel Upper West Side di Manhattan più distesa. La dottoressa col suo approccio calmo e controllato, l’aveva tranquillizzata. Quel pomeriggio di fine maggio il traffico scorreva pigro lungo le Avenue del centro. Cristina uscita dalla clinica, si diresse verso la metropolitana, gli sembrò che le preoccupazioni potessero attendere. Si lasciò andare osservando l’architettura di uno dei quartieri più centrali della città. Si susseguivano uno dietro l’altro una schiera di edifici e palazzi dalle forme squadrate, caratterizzati da mattoni di arenaria bruniti e rossastri. Complessi residenziali abitati dalla middle class newyorkese che Cristina non considerava esattamente belli ma semmai  adeguati allo stile di vita locale. Brutte ma senza dubbio originali, erano invece le scale antincendio che serpeggiavano sul dorso di molti palazzi. Si distinguevano qua e là edifici neogotici ma le residenze esteticamente più apprezzabili ricalcavano lo stile vittoriano con portoni arcuati, stucchi e finestroni tondeggianti.

Una settimana di malattia. La dottoressa Hamilton le aveva imposto una settimana di pausa da lavoro e stress in modo che la cura ricostituente potesse sortire qualche effetto. Cristina accettò a malincuore perché non voleva sentirsi malata, sentirsi ostaggio di un qualsiasi intoppo. Matilde le disse che “i supereroi esistono solo nei film, tutti gli altri sono persone umane che talvolta hanno bisogno di fermarsi per ritrovare le giuste energie”. Alla fine si persuase del fatto che avrebbe avuto una settimana intera da dedicare a se stessa. Il mattino seguente, dopo il prelievo del sangue, si fermò in una piccola libreria che aveva attirato la sua attenzione per i titoli in vetrina. I due giovani librai stilavano una loro personale classifica con commento in calce sotto la copertina del libro. Al numero due del mese di Maggio c’era “Animal Dreams” di Barbara Kingsolver. Quel titolo suscitò in lei una certa curiosità. Ma fu colpita soprattutto dalla descrizione che ne davano i due librai: “Perché leggere questo libro? Perché almeno una volta nella vita avrete bisogno di ritornare sui vostri passi e trovare le risposte che cercavate…Codi, la protagonista, si sente una fallita, una eterna incompiuta al contrario della sorella, Hallei coraggiosa ed altruista…Codi ritorna nella sua cittadina dell’Arizona per assistere il padre malato, dopo anni di assenza. Dove condurrà quel ritorno pieno di dubbi e di domande esistenziali?? Leggetelo ed avrete le risposte…anche alle vostre personali domande!”. “ Complimenti” disse Cristina ad uno dei due giovani librai, il ragazzo vestiva una camicia scozzese a quadretti neri e rossi “ con questo libro siete riusciti ad attirare la mia curiosità”. Lui sorrise e rispose che evidentemente il suo stato d’animo era già predisposto alla lettura di quel romanzo. Cristina non ci aveva pensato ma si rese conto che probabilmente aveva ragione. Quella piccola libreria fatta tutta in legno, dal pavimento al soffitto, al rosso portone d’ingresso, le parve quasi un luogo mistico. Quelle assi di legno su cui camminava sembravano davvero antiche. Probabilmente i due giovani librai avevano preso in gestione quel piccolo tempio della letteratura da non molto ma si percepiva ancora intatto quel fascino di sapere antico e Cristina ne fu completamente rapita . Le sembrava incredibile trovare un posto del genere a cinque minuti a piedi da una delle più trafficate Avenue di Manhattan. Eppure New York era anche questo.

La settimana di pausa in fondo non fu così male. Cristina la stava impegnando immersa nella lettura che alternava a qualche breve passeggiata al parco. Il complesso di vitamine e farmaci immunostimolanti la fece sentire meglio. Le parve di essere più in forza e la febbriciattola sembrò sparita. Thomas l’aveva tempestata di messaggi, Matilde le disse che un ragazzo così premuroso si meritava almeno un invito a cena e Cristina non se lo fece ripetere due volte. La sera dopo Thomas si presentò con una scatola di cioccolatini ed un sorriso radioso stampato in volto. Le due ragazze si divertirono molto con lui, aveva la dote innata dell’intrattenitore. Il pezzo forte della serata furono le imitazioni ridicole dei colleghi di lavoro. Matilde poi disse che la mattina seguente si sarebbe alzata presto perciò si ritirò nella sua stanza lasciandoli soli. Davanti alla tv mentre cambiava canali, Cristina si sentì sfiorare le mani delicatamente, Thomas le diede un bacio appena accennato sul collo…lei lo lasciò fare, sentì di aver bisogno delle sue attenzioni. Si scoprì piacevolmente soggiogata dal calore del suo corpo e si abbandonò al piacere tra le sue braccia.

Sembrava andare tutto bene quando invece un giorno si svegliò nel cuore della notte tutta sudata con il respiro affannoso. Aveva appena ripreso a lavorare e la mattina seguente al laboratorio si sentì di nuovo uno straccio. La notte successiva invece si svegliò in preda ad un fastidioso prurito che le tolse completamente il sonno. Anche al lavoro quello spiacevole prurito continuò a perseguitarla. Quel giorno perse completamente l’appetito. Arrivò a casa la sera esausta e capì che l’indomani non ce l’avrebbe mai fatta ad andare al lavoro. Matilde le preparò una cena molto leggera e cercò di rincuorarla “domattina se vuoi ti accompagno allo studio medico”. Cristina scoppiò a piangere “ Grazie Titti, non so cosa diavolo mi stia succedendo, ho una tremenda paura di essermi beccata qualche brutta malattia”. La Dottoressa Hamilton si dimostrò molto premurosa nei suoi confronti “Cristina non preoccuparti, qualsiasi problema tu abbia, lo affronteremo insieme”…la fece sdraiare di nuovo sul lettino così come aveva fatto alla prima visita. Le disse di respirare normalmente e come la volta precedente, con le mani andò ad esercitare una pressione ripetuta a livello di collo ascelle e addome. “hai alcuni linfonodi ingrossati però questo di per sé non ci dice molto. Potresti avere un’infezione in corso oppure un’infiammazione…ti mando in questa clinica specializzata per un’ecografia all’addome così avremo subito un riscontro utile”. L’esperienza medica della Hamilton le aveva già consegnato un prospetto piuttosto chiaro ma naturalmente voleva attendere le prove cliniche del caso. La dottoressa chiamò personalmente la clinica per prenotare l’esame a Cristina. Poi con quel suo modo di fare rassicurante, le disse che la aspettavano alle tre del pomeriggio. Presero un taxi per spostarsi dal West Side all’East Side di Manhattan. Quando scesero, si trovarono di fronte ad un mastodontico complesso ospedaliero all’interno del quale c’era la clinica indicata dalla Hamilton. Per raggiungere lo Starr Pavillion sbagliarono direzione almeno un paio di volte, dovettero prendere tre ascensori, un tapis roulant e percorrere ai piedi due lunghissimi corridoi. Cristina era sfinita, per fortuna la presenza di Matilde le alleggerì il peso di tutta quella situazione “perderai tutto il giorno per stare appresso a me…”. Matilde la prese sotto braccio e le diede un buffetto “ scherzi, sono contenta di aiutare la mia sorellina” Cristina contraccambiò con un sorriso ai limiti della commozione.

L’ecografia riscontrò un linfonodo sensibilmente ingrossato in una sede profonda dell’addome. Uscì a testa bassa dallo studio medico e andò a sedersi vicino a Matilde. Passarono pochi minuti e un’infermiera la convocò di nuovo per un consulto medico: il dottore l’attendeva all’interno e le disse senza giri di parole che la mattina seguente l’avrebbero ricoverata per praticarle ulteriori esami diagnostici “dobbiamo valutare le cause dell’ingrossamento di questo linfonodo, per prima cosa domattina le faremo un agoaspirato…porti con se i suoi effetti personali necessari ad affrontare qualche giorno di ricovero” “ma come dottore, non capisco? Quanti giorni di ricovero?”  Il dottore non poteva sbilanciarsi e quindi aggiunse solamente “ tutto dipende dall’esito degli approfondimenti diagnostici. Probabilmente dovremo farle più di un esame” poi aggiunse “stia tranquilla, questo è un protocollo medico che applichiamo sempre in questi casi”. Ma Cristina era tutto meno che tranquilla, si sentiva debole ed abbattuta da tutte quelle brutte cose che le stavano accadendo. Uscì di nuovo nella sala d’aspetto e quando fu vicina all’amica, Matilde le chiese: “allora??!!” Cristina rispose con un filo di voce mentre i suoi occhi presero a lacrimare “allora mi vogliono ricoverare…per farmi altri esami” le lacrime le stavano rigando il viso, si sentiva così depressa da non avere neanche la forza di piangere “ non me lo dicono ma è chiaro che si tratta di una di quelle schifosissime malattie”. Passò una nottata completamente in bianco tormentata dal prurito e dalla paura. La mattina mentre riempiva il borsone con il necessario per il ricovero, si soffermò davanti allo specchio appeso all’anta dell’armadio: si rese conto in quell’istante che l’immagine di sé riflessa, rivelava una giovane ragazza sofferente, dimagrita e sfibrata. Scoppiò a piangere da sola, in silenzio, ripetendo tra sé “mio Dio che mi succede? Che mi succede?”

Weill Cornell Hospital, Matilde avrebbe voluto accompagnarla invece Cristina insistette per andarci da sola “mi verrai a trovare stasera dopo il lavoro…se ti va” “ma certo sorellina che mi va! Non ti posso mica lasciare così sola e indifesa”. Quell’ospedale era una vera e propria città nella città, non fu facile raggiungere la clinica. Doveva presentarsi al reparto di ematologia-oncologia dove le avrebbero fatto un prelievo di sangue midollare attraverso l’agoaspirato. Le pareti erano molto colorate, invece le facce dei pazienti erano tristi, sbiadite. Fuori da una porta seduta su una panca stava una giovane donna col un foulard in testa, il volto bianco come la neve. Di fianco a lei il suo uomo che la teneva mano nella mano. Un signore spingeva una carrozzina su cui stava un ragazzetto magrissimo con la testa nuda e una mascherina bianca davanti la bocca. In ultimo Cristina vide una ragazza che avrebbe potuto avere la sua età: la testa rasata, lo sguardo assente, spento, le fece una pena tremenda. Se ne stava tutta sola in un angolo, a farle compagnia solamente il carrellino della flebo con la cannula infilata in una vena. Quella vista fu un ulteriore pugno nello stomaco che si andò ad aggiungere a tutti i cazzotti presi in quegli ultimi giorni “ E io cosa cavolo ci faccio qui? E’ questo che mi aspetta? Dio mio,  non ce la faccio…” Poi si presentò all’infermiera dell’accettazione che vedendola così spaventata, con fare materno le disse “ non preoccuparti cara, siamo qui per aiutarti, adesso la mia collega ti accompagnerà nella tua stanza. Le si avvicinò un’infermiera di colore con lunghe trecce raccolte dietro la nuca che si presentò “piacere Amy” poi con fare molto calmo la invitò a seguirla. Giunte al piano superiore, l’infermiera  le mostrò la stanza e il posto letto, poi le disse “sistemati pure, tornerò tra circa un’ora per accompagnarti dal Dottor Leonard”. La stanza era da due letti ma nell’altro non c’era nessuno. Aveva quell’aspetto asettico tipico degli ospedali, tutto bianco tranne lo schermo tv appeso alla parete. Fuori dalla finestra una selva di tetti addossati uno all’altro e in lontananza le acque di un fiume o dell’Oceano, non riusciva a distinguere con precisione.

Il Dottor Leonard era un omone corpulento ma dal fare bonario, accolse Cristina in maniera calorosa: “buongiorno Cristina, ti stavo aspettando”  le sorrise dietro ai suoi occhialoni “ per me è un piacere conoscere una quasi collega italiana”.  La fece sdraiare su un fianco e le fece sollevare le maglie dal fondo schiena “ vedrai, sentirai solo un piccolissimo fastidio”. Ci volle un po’ di tempo ma andò tutto bene, sentì solo una breve scossa nel momento in cui il medico affondò l’ago nell’osso. Mentre si rivestiva il dottore le disse che nel pomeriggio le avrebbero fatto la biopsia linfonodale “la eseguirò personalmente aiutato dai miei preziosi assistenti” poi aggiunse “potrebbe essere necessaria una piccola operazione chirurgica per asportare il nodulo ma non aver paura, in tal caso sarai sedata per cui sarà completamente indolore”. Cristina annuiva, in fondo il Dottor Leonard le ispirava fiducia e in ogni caso era troppo debole e stanca per reagire in qualsiasi altro modo. Tornò in stanza e si assopì sul letto mentre fissava un punto indefinito fuori dalla finestra. Alle tre del pomeriggio arrivarono due infermiere “ Cristina adesso ti portiamo a fare un giro… è gratis stai tranquilla” disse una delle due con una dose di ironia. La portarono direttamente in sala operatoria. Sdraiata sulla barella non si rese pienamente conto di quello che stesse succedendo attorno a lei: vide le luci senza fine del corridoio scorrerle sopra la testa mentre un’infermiera canticchiava la canzone più gettonata del momento. Poi arrivarono a destinazione, le infermiere aprirono le porte della sala operatoria spingendole con la testata della barella. C’erano dei faretti tondi sul soffitto che sprigionavano una luce fortissima, tanto che Cristina fece quasi fatica a mantenere gli occhi aperti. In sala si sentiva un gran vociare ma dalla sua posizione Cristina non riuscì a capire quanti fossero. Poi si avvicinò una sagoma imponente che le fece subito ombra e in quell’istante mise a fuoco il volto ben pasciuto del Dottor Leonard “ecco qui la mia amica italiana, non ti ho neanche chiesto da quale città italiana provieni” “Parma…ma in realtà abito lontano dalla città, abito in montagna” “allora ti mancheranno molto le tue montagne…” “già” rispose Cristina. In quel momento si sentì presa dalla malinconia, troppo lontana da tutto ciò che le era familiare. Riapparvero le infermiere che spostarono la barella in un altro punto della sala “adesso ti daremo un sedativo, ti verrà un po’ di sonno…” Mentre diceva queste parole l’infermiera le prese il braccio e le strinse un laccio emostatico sopra il gomito. Poi ci infilò un piccolo ago. Cristina osservò inerme. Arrivò anche una flebo, Cristina le sentiva armeggiare, sentì il dottore che disse “allora  a che punto siamo?”…poi si fece tutto vago, ci fu un vuoto.

Tutto sommato passò una notte tranquilla sotto l’effetto degli antidolorifici. L’indomani mattina si ripresentò nella sua stanza Amy, l’infermiera di colore “oggi come prima colazione posso darti un tè con due biscotti oppure un succo di frutta” “grazie prenderò il tè” a Cristina pareva di stare meglio “ il Dottor Leonard passerà questa mattina?” “certo cara, vedrai che verrà a visitarti presto”. Finalmente alle undici arrivò il dottore in compagnia di un giovane assistente. Cristina lo aveva aspettato a lungo, desiderosa di sapere qualcosa del suo stato di salute.  “Eccomi qui Cristina, come ti senti? Lo so che non vedevi l’ora di vedermi…”  prese la sedia che stava addossata al muro e si sedette di fianco al letto in modo da poter parlare faccia a faccia con la ragazza “sai, tu sei in cima ai miei pensieri ma oggi prima di venirti a trovare ho dovuto aspettare l’esito delle analisi”  col suo fare bonario, inarcò le sue enormi guance che sollevarono gli occhialoni sopra il naso “adesso ti devo fare un discorsetto per cui stai bene a sentire…” Cristina annuì ansiosa di capire “ sia l’analisi del sangue midollare come anche la biopsia del linfonodo, hanno rilevato la presenza di cellule tumorali, in particolare lo studio al microscopio ci dice con un certo grado di precisione che si tratta di cellule tipiche del Linfoma di Hodgkin” Cristina ascoltò impietrita il responso, era una giornata luminosa che le aveva infuso un moderato ottimismo. Quelle parole per lei suonarono come una sentenza di condanna. Il Dottor Leonard però non le diede il tempo di manifestare nessun sentimento “ ferma, ferma, non trarre facili conclusioni. Prima di tutto devi sapere che questa malattia è curabile nel 80/85% dei casi. Oggi abbiamo a disposizione una serie di cure che si possono adattare alle esigenze di ogni singolo paziente. Ascoltami bene, devi affrontare tutto questo in maniera positiva perché hai tutte le possibilità di guarire” Cristina fece una smorfia di dolore, visualizzò di fronte a sé una montagna enorme da scalare…con un filo di voce traballante disse: “e allora adesso cosa mi succede? Cosa devo fare?” riprese il Dottor Leonard: “prima di tutto adesso ti sottoporremo ad un altro paio di esami in modo da verificare con precisione lo stato della malattia, dopodiché valuteremo il tipo di cura più adatto” poi aggiunse immediatamente queste parole: “ considera che adesso a combattere questa battaglia non sei più da sola ma ci sono anche i dottori e gli infermieri dell’ospedale che fanno il tifo per te e ti aiuteranno in tutti i modi”  poi le sfiorò delicatamente la mano in segno di vicinanza.

Cristina restò sola nella sua stanza in preda a mille paure e qualche speranza. Immobile nel letto con lo schienale rialzato, fissò l’orizzonte di là dal vetro cercando inconsciamente di scrutare il suo futuro “perché mi sta succedendo tutto questo?…qui a New York stavo facendo l’esperienza più bella della mia vita e adesso guarda come mi sono ridotta…cosa si è rotto dentro di me?”. Nel pomeriggio venne sottoposta ad un ago biopsia ossea. Le prelevarono un microscopico frammento di osso dal bacino aspirandolo con una lunga siringa. La sera si ritrovò febbricitante nel letto con un nuovo dolore al fondoschiena. Quando arrivò Matilde, non seppe far altro che piangere sconsolata “ ho un tumore, si muove dentro il mio corpo…non so neanche bene dove”. L’amica restò quasi senza parole “ ma tu sei forte Cristina, ce la puoi fare…” le strinse una mano tra le sue e pianse insieme a lei.

Computed Thomography And Positron Emission Tomography, il giorno dopo fu la volta della più sofisticata tecnica diagnostica a disposizione dei medici  Di nuovo in viaggio con la barella attraverso i corridoi dell’ospedale fino all’ambulatorio destinato all’esame. Fece la conoscenza di un nuovo dottore, più giovane e magro del Dottor Leonard ma molto più riservato e distaccato nell’approccio col paziente. La fecero sdraiare su di un lettino e le attaccarono nuovamente una flebo in vena che le avrebbe infuso un liquido a base di glucosio, contenente un radiofarmaco. Prima di eseguire l’esame dovette attendere un’ora in modo che il glucosio si distribuisse all’interno di tutti gli organi. Il dottore le disse: “ il glucosio che ora è in circolo nel tuo organismo andrà ad accumularsi là dove c’è qualche cellula malata, così grazie al radiofarmaco sapremo esattamente dove si sta sviluppando la malattia”. Cristina cadde in uno stato di angoscia permanente, assalita da una serie di sintomi che avevano l’effetto di fiaccarla sempre di più, momento dopo momento. Senso di spossatezza, attacchi di prurito, febbricola latente, dolori addominali, sonnolenza improvvisa, tutto si mischiava in una condizione psico-fisica ai limiti dell’assurdo. Infine l’assistente la condusse di fronte al macchinario della PET-TC. La fece stendere sulla tavola scorrevole e le sistemò i due cuscini sagomati, uno sotto la nuca, l’altro appena sotto le ginocchia. La raggiunse il dottore che le raccomandò di rimanere calma ed immobile. Poi l’assistente la immobilizzò all’altezza del torace con due nastri in velcro e le porse gli auricolari “l’esame durerà circa mezz’ora, ascolterai un po’ di musica rilassante”. Cristina adesso si sentiva una cavia da laboratorio, poi la tavola si mosse ed entrò nel tunnel della macchina. Vide scorrere ai suoi fianchi una serie di led blu e sopra la sua testa una specie di telecamera o scanner. Si abbandonò ad uno stato d’incoscienza favorito dalla musica ipnotica. Sentì la tavola spostarsi a piccoli passi ad intervalli irregolari.

Quarto Stadio B. “ Cristina io ritengo giusto che tu conosca l’entità della tua malattia, perciò adesso traccerò la mappa del male all’interno del tuo corpo, in modo che tu possa affrontare il tuo percorso di cure il più serenamente possibile”. Il Dottor Leonard spiegò a Cristina che le cellule tumorali si erano accumulate nei linfonodi del collo, delle ascelle e si erano sviluppate in un altri organi “abbiamo una marcatura al mediastino e una al fegato” Cristina ascoltò la spiegazione come se fosse una sentenza senza scampo. Deglutì la poca saliva che aveva in bocca e con la forza della disperazione cercò di raccogliere le energie residue per affrontare la realtà “ dottore mi dica quanto sono grave…” “vedi Cristina, il tuo linfoma è in una fase avanzata quindi la tua situazione è critica. Ma esistono delle cure molto efficaci anche per il tuo caso. Però dovrai farti forza ed avere molta pazienta. Dovrai affrontare dei cicli di chemioterapia e radioterapia che ti creeranno molti problemi…sarà come fare una maratona senza allenamento o come scalare una montagna impervia…ma credimi, avrai il sostegno di tante persone”.              A Cristina ritornò alla mente l’immagine di una montagna aspra e selvaggia che aveva visualizzato due giorni prima quando lo stesso Leonard le aveva diagnosticato il linfoma. Una montagna per lei sconosciuta, molto diversa da quelle del suo Appennino che ricordava sempre con grande affetto.

Era più di una settimana che non la sentiva e in quel lasso di tempo il mondo le era letteralmente franato sotto i piedi “mamma sono all’ospedale” “ all’ospedale? E come stai? Dimmi tutto…” mi hanno fatto degli esami e hanno scoperto che ho un linfoma, un tumore maligno” Cristina scoppiò in un pianto sommesso. La mamma era così incredula che al primo momento faticò a realizzare cosa fosse successo davvero. Quelle parole furono semplicemente sconvolgenti, un fulmine a ciel sereno “oddio Crissy, non sai quanto mi dispiace”. Non riuscì a capacitarsi di come quella sua figlia così piena di voglia di vivere, fosse in preda ad un male così brutto. Le sembrò una situazione irreale, frutto di uno scherzo mal riuscito. Eppure quella voce straziata era proprio quella della sua bambina. Se la ricordava coi bagagli in mano il giorno della partenza, piena d’entusiasmo per quell’avventura che l’avrebbe resa una donna migliore. Quel giorno le pareva che niente e nessuno al mondo l’avrebbe potuta fermare. Com’era possibile? La sua Crissy era forte e determinata…

Cristina passò il fine settimana a casa e Matilde non la perse di vista neanche un secondo. Riuscì persino a trascinarla al Prospect Park, il parco che Cristina amava tanto, là dove andava spesso a correre e che considerava uno dei suoi luoghi del cuore. Lungo un’insenatura del lago, si sedettero su una panca di legno all’ombra di alcune querce. I rumori delle automobili in lontananza erano un sottofondo indefinito. Mamma anatra accompagnava una fila di anatroccoli in esplorazione. Stettero a lungo sedute senza dirsi niente, rimirando l’armonia di quell’angolo di pace.

Lunedì mattina. Cristina osserva la città scorrere fuori dal finestrino lungo il tragitto verso l’ospedale. Nella zona di Brooklyn dove abitava, la metropolitana scorreva quasi completamente sottoterra fino a salire in superficie a livello del Manhattan Bridge. Era sempre un’esperienza suggestiva attraversare quel ponte, un intreccio di piloni e tiranti in ferro che sovrastano l’East River. In quel punto, ogni volta che vi passava, si trovava sorpresa nel constatare che quella infinita distesa di palazzi, grattacieli e strade, in realtà era circondata dall’acqua. L’attraversamento dell’East River apriva un ampio corridoio nella città, da una parte il ponte di Brooklyn e i grattacieli di Wall Street, dall’altra il fiume che si perdeva nella distesa di case e palazzi, in una vista sterminata dove non si scorgeva la linea dell’orizzonte. Intanto i traghetti scivolavano lenti a pelo d’acqua fino a risalire l’intera isola di Manhattan. Quel lunedì mattina però il viaggio non fu piacevole, Cristina si sentì debole e oppressa, in qualche modo ostaggio del suo male. Anche il vagone della metro affollata, si fece troppo soffocante. Invece i suoi jeans attillati che indossava, sempre aderenti alle forme di cosce e glutei, ora cadevano molli lungo le gambe, quasi come stesse indossando una taglia in più. Fu un viaggio stancante, la sofferenza che aveva nel cuore contrastava con l’irrefrenabile vitalità delle strade e della gente. Tutto era in fermento là fuori, tutto era in evoluzione. Sulla facciata di un palazzo campeggiava un grande manifesto. In primo piano il volto di una giovane cantante, sullo sfondo un ambiente fantastico abitato da fiori tropicali, pietre preziose e oggetti volanti. Alla base una scritta recitava: “To the Wonder”. Cristina realizzò amaramente che quello non era più il suo mondo o quantomeno avrebbe dovuto scordarselo a lungo. A malincuore era entrata in una nuova dimensione con la quale fare i conti.

subway girl

Quella mattina il Dottor Leonard e la sua èquipe le impiantarono nel petto poco sotto la clavicola quello che i pazienti chiamano comunemente Port. Sotto anestesia locale le praticarono un incisione per intercettare la vena succlavia dove inserirono un lungo tubicino terminante con una specie di minuscolo serbatoio dalle dimensioni di una monetina. Il dottore le spiegò che così avrebbe evitato possibili lesioni permanenti alle vene, visto l’elevato numero d’iniezioni ed infusioni previste nel corso della terapia. L’operazione fu breve, tagliarono, inserirono e suturarono. Poi le applicarono un cerotto di grandi dimensioni. Se quell’aggeggio non le avesse dato problemi, nel giro di una settimana avrebbe iniziato la chemioterapia. La sera Cristina di fronte allo specchio si tolse il cerotto per praticare una disinfezione così come le aveva spiegato il dottore: si sentiva tirare la pelle, quell’affare le provocava un gonfiore come se fosse un bernoccolo. Inoltre, contrariamente a quanto le avevano detto, era tutt’altro che invisibile. Sconsolata, massaggiò delicatamente la ferita con un batuffolo imbevuto di una soluzione giallastra. Poi mentre lasciava asciugare la medicazione, si guardò immobile di fronte allo specchio. Aveva il viso stanco, le rughe d’espressione si erano accentuate, sapeva che sarebbero state sue compagne nei giorni a venire. Passò le mani sui capelli, li raccolse dietro le orecchie,  poi avvicinò la faccia alla superficie dello specchio fino a guardare dritto nei suoi occhi. Erano arrossati ma l’iride illuminato dalla luce, sembrava più verde di quanto fosse realmente. Provò ad avvicinarsi al massimo, fino a toccare la superficie con la punta del naso. Riflesso all’interno della pupilla, avrebbe voluto scorgere il suo volto ma niente da fare, vide raffigurata solo una sagoma indefinita. Chi si nascondeva dentro quel corpo malato? “ sono io quella faccia di ragazza sofferente che vedo allo specchio? Sono io quella giovane donna già vecchia e consumata dal tempo? Dov’è finita la Cristina che conoscevo? Dove sei? Dove sei?” Poi finalmente mise a fuoco quel foro minuscolo e nero che le restituì la sua immagine piccolissima e buia. Frastornata, si discostò dallo specchio e deglutì a fatica.

Una settimana dopo si ritrovò nella sala d’attesa di oncologia in presenza di altri giovani come lei. C’era chi indossava una cuffietta, altri indossavano dei bandana, Qualcuno aveva i capelli rasati, qualcuno la mascherina alla bocca. Cristina era arrivata all’ospedale già stanca del viaggio. Si sedette al centro di una lunga fila di seggiolini. Di fianco a lei c’era una mamma in compagnia del figlio adolescente. Il ragazzo, dal corpo gracile, era assorbito dalla lettura di un fumetto, tanto che quasi non si accorse della sua presenza. Al lato opposto della sala, una ragazza dai capelli rasati la stava fissando. Quando i loro sguardi s’incrociarono, la ragazza le sorrise. Cristina si sforzò di contraccambiare la gentilezza sebbene le costasse fatica. Poi venne il suo turno, una dottoressa la aspettava davanti allo schermo di un pc “ Buongiorno Cristina da oggi iniziamo un percorso insieme, il nostro compito è quello di darti tutto il supporto possibile in modo che tu possa affrontare serenamente la terapia” La dottoressa le fece una visita generale ed in ultimo le fece firmare il foglio del consenso informato. Poi da una porta laterale della stanza, la condusse nell’ambulatorio del day hospital. “eccoci qui, questa è la tua poltrona, con questi tasti puoi posizionare lo schienale come meglio credi…adesso l’infermiera ti collegherà il catetere al Porter. Per prima cosa ti inietteremo un farmaco antiemetico e poi proseguiremo con l’infusione dei chemioterapici. Come sai, il trattamento durerà più di due ore” Cristina guardò la poltrona bianca dall’aspetto affusolato ed ergonomico, poi prima di sedersi alzò la testa per avere una visione completa dell’ambiente in cui si trovava:  c’erano tre ragazze sedute su altrettante poltrone addossate alle pareti della stanza. Due di loro avevano già cominciato il trattamento mentre la terza era in compagnia dell’infermiera che le stava praticando la disinfezione per collegarle il catetere. Dopo pochi secondi appoggiò la sua mano sul braccio dell’infermiera e le disse: “Sally dammi un minuto…” Cristina la vide dirigersi con piglio deciso verso di lei. Fu in quel momento che riconobbe la ragazza della sala d’aspetto “ciao benvenuta nel Club degli Angeli, io sono Sofia” “piacere io mi chiamo Cristina…scusa sono italiana, forse non ho capito bene quello che hai detto…”  invece aveva compreso benissimo ma era incuriosita, voleva spiegazioni…”sì il Club degli Angeli, siamo io, Melany e Kate…guardaci bene e dimmi se non abbiamo la faccia d’angelo” si mise a ridacchiare divertita. Anche Cristina era divertita da quelle parole “sì in effetti è vero, sembrate proprio degli angeli…” “beh guarda è chiaro, abbiamo la pelle bianca come gli angeli, siamo delle creature straordinarie, ci mancano solo le ali ma credimi, è solo questione di tempo” Sofia le fece l’occhiolino e  alzando il tono della voce aggiunse: “ragazze salutate la nuova arrivata” anche Melany e Kate sorrisero ed entrambe salutarono Cristina con un gesto della mano. “Beh immagino che anche tu sia qui per lui…il Dottor H” “ già proprio così” rispose Cristina sconsolata”  “ Beh non preoccuparti qui lo conosciamo tutti bene, vedrai che imparerai a conviverci…ma adesso devo tornare al mio posto” disse Sofia “altrimenti Sally perde la pazienza. Tranquilla, avremo tutto il tempo per parlare”.

Rincuorata da quell’accoglienza Cristina si distese sulla poltrona, cercando di trovare la posizione più confortevole possibile. Dall’angolo alla sua sinistra Melany le disse “ buon viaggio, fatti coraggio”. Cristina notò come Melany avesse proprio una faccia d’angelo, sostenuta da un corpo esile. Indossava un foulard a mo’ di turbante mentre il suo volto era di una dolcezza inconsueta, dietro quell’immagine celestiale si intuiva la sua sofferenza. A Cristina fece subito tenerezza e la ringraziò per l’incoraggiamento.

Quando si voltò, vide le mani dell’infermiera che si muovevano sciolte e decise. Un piccolo beccuccio recava in cima un piccolo ago. Tastando con un polpastrello, l’infermiera individuò il punto esatto là dove inserì l’ago in corrispondenza del Porter; infine collegò il catetere. Successivamente con una siringa le iniettò la soluzione antiemetica direttamente nella camera infusionale, cioè quel bicchierino dove goccia a goccia sarebbero defluiti i farmaci chemioterapici. Le sacche per l’infusione erano già appese all’asta, tutto era pronto.  Cristina a quel punto si mise gli auricolari  nelle orecchie, poi dal suo smartphone aprì la playlist che si era scaricata in quei giorni: Jovannotti e le sue canzoni l’avevano accompagnata sul treno ai tempi dell’ università ma apprezzava anche certi vecchi cantautori italiani, sempre attuali con le loro storie di vita vissuta. A New York invece aveva scoperto nuove sonorità. Una selezione molto varia di musica, era quello che ci voleva.

Seduta dentro a un aereo con il biglietto di un’altra, hai salutato la tua classe di eroi per fare il grande salto, per diventare la donna che sei… e hai disegnato a colori il mondo che hai immaginato. Te ne vai in giro a fare tentativi, finche non avrà combaciato…” il Giova le cantava “Noi siamo gli immortali” Cristina in cuor suo, avrebbe voluto tanto dargli ragione. Passò un’ora, provò solo un leggero fastidio nella zona del petto dov’era inserito il catetere. Poi una strana sensazione di calore cominciò a diffondersi per tutto il corpo fino ai piedi e alle orecchie. Cristina però mantenne la calma, Pharrel Williams cantava “Happy” e lei si lasciò trasportare ancora per qualche istante dalla musica. Dopo un po’ aprì gli occhi che teneva socchiusi: Sally che le stava cambiando sacca con un altro farmaco, le chiese “ come sta andando?” “per adesso bene, mi sento solo un po’ accaldata” “non preoccuparti è normale”. Ognuna delle sue compagne di stanza invece era intenta in qualche sorta di attività: Sofia stava scrivendo su una specie di diario dei ricordi, Melany era al telefono ed invece in fondo alla stanza Kate stava schizzando qualcosa su un cartoncino. Quando si accorse che Cristina la fissava, le scappò un sorriso compiaciuto “metto a frutto la mia fantasia…però non ti muovere troppo altrimenti perdo l’ispirazione” Cristina fu colta di sorpresa, certo non immaginava che il soggetto del suo disegno fosse lei “grazie ma non dovevi, non sono così importante…” “ma certo che lo sei, anche tu ora fai parte del nostro Club. E poi a me fa piacere, disegnare mi fa star bene. Più tardi mi dirai cosa ne pensi”. Cristina avrebbe voluto andare subito a sbirciare ma era intralciata dalla flebo e poi in fondo le sembrò giusto aspettare. Così si limitò a dirle: “credimi, non vedo l’ora di vederlo!”. Le ragazze terminarono le infusioni prima di lei. Cristina vide Sofia chiudere il diario con un’aria soddisfatta. Aveva una copertina rosa tenue ma non recava nessuna scritta in evidenza, bensì delle decorazioni leggere ai bordi. Lo posò con una cura certosina all’interno del suo zainetto. La vide spostare meticolosamente il contenuto per creare uno spazio preciso dove riporre il diario. Appena terminata l’operazione alzò la testa e si lanciò in un proclama:“bene ragazze, è arrivata l’ora della torta, anche oggi ce la siamo meritata” Di fianco alla porta d’ingresso c’era un armadietto, Sofia ci infilò la testa e poi sbucò da dietro l’anta dicendo: “indovinate che cosa ho qui?” “torta di yoghurt?” disse Melany “noo sbagliato!”  “sì ma dolce o salata?” chiese Kate “un po’ dolce e po’ salata” Sofia strizzò gli occhi, sfilò la torta dall’armadio e aprì il contenitore circolare “torta agrodolce di melanzane, leggera e sfiziosa…l’ho preparata apposta per gli stomachini delicati di noi angioletti” concluse l’originale presentazione con una smorfia ridicola e canzonatoria. La torta rimase in bella vista per qualche minuto finché Cristina non ebbe terminato l’ultima flebo. Poi le ragazze leggermente affaticate dai primi effetti dei farmaci, si avvicinarono alla torta non tanto affamate, quanto invece desiderose di assimilare i benefici di un cibo preparato con tanta cura. Per Cristina fu soprattutto un’iniezione di buon umore: il contrasto tra la croccantezza del pangrattato in superficie e la morbidezza del ripieno di melanzane e pomodori, l’aveva subito conquistata. A quella sensazione si aggiungeva il sapore leggermente dolciastro della pasta che le donava un gusto particolare ed unico “Hey complimenti Sofia, è buonissima”  “grazie, grazie…si in effetti me la cavo, sai anch’io sono di origini italiane…from Sicily, buon sangue non mente eh!” a quel punto Melany spiegò a Cristina che Sofia se dopo gli studi di legge avesse deciso di fare la cuoca al posto dell’avvocato, sicuramente avrebbe avuto successo “si beh devo ancora decidere cosa farò da grande” commentò ironicamente Sofia. Nei loro volti pallidi, indebolite nel fisico, le ragazze si stavano gustando con semplicità e buonumore quel momento di gioia condivisa grazie ai poteri magici di quella fetta di torta. Ad un certo punto Kate tirò fuori il cartoncino col disegno. L’esclamazione immediata delle altre ragazze non lasciò spazio a dubbi: “Wow che bello” dissero praticamente all’unisono. Con il tratto di un pastello a carbone Kate aveva raffigurato un angelo dalle belle ali piumose e dalle lunghe vesti, seduto sulla poltrona della chemio. Il volto di quell’angelo naturalmente aveva i lineamenti di Cristina. Era un immagine che univa dolcezza e forte impatto emotivo, esaltato dal bianco e nero della tecnica a carbone. Cristina portò le mani alla bocca spalancata dallo stupore “Kate sono senza parole, davvero non so che dire, è straordinario”. Dietro ai suoi occhiali Kate sorrise felice di aver regalato un’emozione alle sue amiche, poi aggiunse “ non devi dire niente, sono io che ringrazio te perché oggi mi hai dato la giusta motivazione…sai quando mi succede così, poi riesco sempre a fare qualcosa di carino”  “la nostra Kate è troppo modesta” disse Sofia, intervenendo e proponendo un brindisi in onore degli Angeli. Fu allora che sollevarono i bicchieri di carta, contenenti rigorosamente acqua naturale e brindarono a loro stesse e a quel momento unico che avrebbero conservato a lungo nella loro memoria.

Quel pomeriggio Cristina tornò a casa con la netta  percezione di aver sperimentato quanto di più simile alla felicità: il senso di condivisione fraterna che aveva provato con quelle ragazze, accomunate dalla stessa malattia e dalle stesse speranze, aveva stabilito fra loro una relazione autentica, qualcosa che andava dritto all’essenza della loro umanità.

Purtroppo quell’approccio speranzoso alla malattia, lasciò presto spazio al dolore. Nel tragitto verso casa Cristina si era fermata al supermarket ed aveva preso una bella insalatona mista per la sera. Come primo giorno di cure, medici ed infermiere le avevano consigliato di fare una cena molto leggera. Dopo mangiato aveva chiamato in Italia, la mamma le aveva espresso la sua volontà di raggiungerla a New York. Cristina però le disse di aspettare perché non voleva farla soffrire inutilmente. Il punto era che se la sarebbe dovuta vedere personalmente con la malattia “mamma non offenderti, in questo momento penso di potermela cavare da sola, devo riorganizzare la mia vita per affrontare la malattia. Ho bisogno di tempo e se adesso fossi qui con me ti farei preoccupare più di quanto già tu non lo sia” “ va bene Crissy, tanto lo sai, quando avrai bisogno mamma correrà da te”. Poco dopo però, gli effetti collaterali della chemio la travolsero come un’onda di piena: anche se prima di mangiare aveva assunto una pastiglia contro il vomito, una nausea crescente cominciò a salirgli dal fondo dello stomaco. Matilde sarebbe rientrata di lì a poco e Cristina si sforzò nel mantenere la calma. Cominciò a provare dei brividi freddi lungo la schiena. Contemporaneamente fu assalita da un tremore che non avrebbe saputo dire se direttamente collegato ai brividi di freddo oppure no. Tutte le articolazioni diventarono pesanti e doloranti come se avesse una forte influenza. Passarono i minuti ma la nausea non face altro che aumentare gradualmente, come l’alta marea, finché Cristina non ne fu sommersa. Era seduta sul divano sotto la coperta di lana e quando realizzò che stava per vomitare, fu troppo tardi. Fece appena in tempo a sporgersi un poco e vomitò tutto quello che aveva nello stomaco, sul tappeto. Matilde entrò dalla porta e la vide ansimante con i gomiti sulle ginocchia e le mani che sorreggevano la testa. Di fronte a quella scena sospirò sottovoce “eccoci, ci siamo…”. Ma quello fu solo l’inizio di una notte da incubo che passò completamente insonne. Matilde dalla sua camera rimase costantemente in allerta. Cristina fu assalita varie volte da conati di vomito e poi alle quattro di mattina quando era di nuovo con la testa china sopra la tazza del cesso, se la fece anche addosso. Matilde corse in bagno per l’ennesima volta e appena si affacciò all’ingresso l’odore fu talmente forte che non riuscì a fare a meno di esclamare “Oddio…” Cristina giaceva a terra di fronte al water inerme come un neonato bisognoso di cure. L’immagine di quella povera creatura rattrappita sul pavimento macchiato, era desolante. Piangeva sommessamente, senza forze, annientata dalla completa perdita di controllo sul suo corpo. Tremava e sospirava, non aveva la forza di fare altro. Così allora Matilde si fece coraggio e fece l’unica cosa che c’era da fare “ tranquilla Crissy, adesso sistemiamo tutto”. Si chinò e con la massima delicatezza possibile cominciò a sfilarle il pigiama dai fianchi. Non fu un’operazione facile perché dovette vincere la resistenza del peso morto a terra dell’amica e soprattutto dovette vincere la repulsione che gli infondeva quell’odore nauseabondo di feci. Ma si diede coraggio e proseguì lentamente. Poi con la stessa delicatezza le sfilò le mutandine divenute appiccicose e lorde. Le faceva allo stesso tempo pena e ribrezzo in quello stato larvale e maleodorante. Infine prese un grande asciugamano, infilò i guanti delle pulizie e con pazienza le pulì il sedere proprio come avrebbe fatto con un neonato. Dopo che la ebbe disinfettata, le sollevò un braccio e se lo cinse attorno al collo, poi a sua volta la prese tra le braccia e le disse “forza adesso fai un piccolo sforzo che ci alziamo”. Mentre la sollevava Cristina con un filo di voce le sussurrò “scusa, scusa, scusa…” Matilde adesso piangeva, avrebbe voluto che Cristina non se ne accorgesse, per non aggiungere dolore al dolore. Provò una pena infinita per quella sua amica così dolce e fragile.

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